Entrare in un equivoco locale notturno in cui trovare qualcuno che sia il proprio sbiadito riflesso? Un cliché. Bere brandy e giocare con una misteriosa parola d’ordine? Ancora un cliché. Fare il proprio ingresso con una maschera e un lume in mano, mutandosi in metafora polisemica? Visto e rivisto a più riprese. Come sfuggire alla palude dell’ovvio, che risucchia nel nulla ogni slancio? Anche il pubblico è continuamente sollecitato nella risoluzione del problema in “Eterno ripetersi banale”, lo spettacolo del collettivo livornese Adda, presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, in cui Leonardo Ceccanti (autore del testo), Matteo Ceccantini (regista) e Matteo Risaliti dimostrano un energico e accattivante dominio del palco. La messinscena segna una nuova tappa nel percorso di Mutaverso, il progetto artistico a cura di Vincenzo Albano. Nell’incontro con gli spettatori condotto dal giornalista Michele Di Donato, la compagnia ha affermato che la sincerità, nel proprio lavoro, è tutto e che non si può inseguire un obiettivo, se non lo si sente nelle proprie corde. Nell’allestimento, tuttavia, è proprio la sincera presa d’atto a mostrare la corda. Le tre figure (una didascalia vivente e due protagonisti) cercano in ogni modo uno spessore creativo che le riscatti da una condizione inaggirabile e castrante: essere funzioni narrative, elementi di un testo che dovrebbe farsi sangue e ossa e puntualmente si scontra con soluzioni già adottate, sentieri già percorsi. Fare il verso degli indiani per decostruire il linguaggio, indicare gli attori semplicemente come “uomo” per dissolvere l’identità, fare della pagina bianca l’origine di una nuova performance, per tacere del desiderio di picchiare le persone in poltrona, sono tutte scelte ormai da tempo tramutate in stereotipi. La didascalia stessa è una convenzione e abbandonare i compagni di viaggio per poi ripiombare gridando “Fine” non è una soluzione. Chiamati continuamente in causa sulla trama e sul loro rapporto con i gesti e le bugie di una quotidianità asfittica, gli spettatori non sono d’aiuto nell’impasse, mentre si scontrano il personaggio desideroso di innovazione e quello che comprende come sia impossibile tenere il ritmo di un mondo che corre a precipizio. Chi li osserva all’opera, dopotutto, non cerca mica nel teatro una ragione per andare avanti: ha bisogno di un lavoro, di cibo, di droghe leggere. Certo, il teatro esiste per nutrire gli sguardi. Ma quando anche quegli occhi non conducono da nessuna parte, non è meglio ripiegare su qualcosa che sia accessibile a tutti, invece di spendere ogni energia alla ricerca dell’inafferrabile? Dosando abilmente il sarcasmo e il pathos, un’azione scenica sull’impossibilità di concretizzare tale azione diventa una riflessione sul limite, su quanto paradigmi e condizionamenti ci serrino la gola e su come la partita tra significato e significante sia da sempre truccata. Attente scelte drammaturgiche rendono il discorso felicemente ambiguo. Quando i due interpreti fingono di puntarsi addosso una pistola dopo aver imboccato il vicolo cieco della cosiddetta normalità come riscoperta di sé (una panchina, due amici, chiacchiere banali nell’intento di giungere a chissà quale dimensione interiore) per poi minacciare la platea, ricordano che l’essenza del palcoscenico è il conflitto: elemento lontanissimo dalla comoda acquiescenza al già detto e al già vissuto. La scelta audace di esplicitare i sottotesti, cioè di chiarire quel che vibra oltre le parole e i convincimenti, lasciando che il buio illuminato appena e rumori evocativi invadano tutto (una campana, il mare, la risata di un bimbo) è un ritorno al principio dell’uomo misura di tutte le cose, da cui è nata ogni evoluzione. Quando è la didascalia stessa a minacciare gli altri due a mano armata, ma scarica, per poi fare in mille pezzi il testo a cui tutti hanno finto di attenersi, scatta l’identificazione con ciò che è sempre esistito in funzione di qualcos’altro (l’indicazione di un copione, appunto) e vuole finalmente lasciare un segno di per sé, senza vincoli. In quell’attore, che entra nel quadrato tracciato con il nastro adesivo dove si attua la rappresentazione e che mostra come tutto sia possibile, risuona il desiderio di chiunque di pensarsi al di fuori del sistema. Neppure questa è, però, la via. I tentativi di evadere da solchi prefissati si concludono tutti dinanzi all’orrido rischio di banalizzare ogni dettaglio. Il momento in cui, eliminata parte del nastro in terra, gli attori sembrano disarmati, mentre la didascalia ricompone i pezzi del copione, non è una resa, ma l’urgenza di un nuovo inizio. Si scopre che la parola d’ordine è soggetto: quello di una drammaturgia, ma anche quello che non teme di essere unico. Essere unici, viene detto, significa, infatti, non essere riconosciuti, scontare il prezzo di non essere collocabili in una prospettiva comune. È per questo che i teatranti, dopo aver rivolto al pubblico l’ultima, ovvia domanda, si coprono gli occhi come all’inizio dello spettacolo. In un buio fuori da ogni attesa, può rinascere, forse, l’eterna sfida di un corpo che si fa parola e pensiero, senza temere che le luci in sala non si riaccendano più.
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