Una panchina, due anziani, chiacchiere e popcorn. Nulla di più ordinario, si potrebbe dire, ma è proprio in ciò che passa inosservato che si annidano pensieri ed emozioni a ricordarci di essere vivi. Interamente giocato su un’intensa essenzialità, ben lontano da qualunque retorica e dal ricatto psicologico, “Era ottobre”, proposto dalla compagnia Teatro Pubblico incanto, è lo spettacolo, scritto, diretto e interpretato da Tino Caspanello al fianco di Tino Calabrò, su scena e costumi di Cinzia Muscolino, che ha convinto il pubblico del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno nell’ambito di Mutaverso, il progetto culturale, che ha in Vincenzo Albano il proprio direttore artistico. Come affermato da uno dei due in scena, che non hanno un nome perché, malgrado tutto, si riconoscono l’uno nell’altro, proprio come lo spettatore si riflette gradualmente in essi, i protagonisti sono “vecchie monete fuori corso che nessuno vuole più”. Osservano, dunque, se stessi e la realtà circostante da una prospettiva marginale, aspetto in cui il regista si riconosce appieno. “L’attenzione alla marginalità è per me una costante – ha affermato Caspanello nell’incontro con il pubblico seguito all’allestimento- perché noi tutti viviamo in un margine, esattamente come la Sicilia che, alla periferia dell’impero, consente nuovi modi di approcciarsi a ciò che ci circonda. Mi viene in mente una parola presente nelle Troiane di Euripide, teikoscopia, cioè osservare dall’alto delle mura: essere dentro un contesto, ma spingere il proprio sguardo in base a una posizione privilegiata. Oggi si chiede a tutti i costi di produrre senso, anche al teatro, per essere collocabili in una categoria e opporsi a questo diviene significativo”. Come sempre accade quando esiste un’affinità profonda, non mancano contrasti, incomprensioni, difficoltà. Il personaggio che attende l’arrivo dell’altro gli rimprovera il ritardo accumulato anche nei giorni precedenti, lo mette in guardia dalle paranoie tipiche dell’età, critica le sue debolezze, mentre il suo interlocutore, che sembra più disponibile al dialogo, non si scoraggia né nel cercare un’intesa né nel sottolineare quel che possa infastidirlo. Nell’economia di gesti e parole, in una mimica che corre fino in fondo il rischio di accogliere diverse interpretazioni, nel dare corpo ai silenzi evitando con cura la commozione facile, i due oscillano tra distanza e vicinanza, tra solitudine ed empatia per difendere quel che resta della loro umanità in un mondo arido e sordo. Costruire un rapporto che sappia resistere a tutto, alla tentazione di fuggire come all’omologazione, è una strada accidentata in cui è facile ritrovarsi in uno stallo. È allora che uno sguardo, una risata, un tenue avvicinarsi può sradicare la frustrazione di sapersi fuori tempo, dimenticati da uno scenario volutamente indefinito, ma non per questo meno spietato, che i vecchi hanno visto ampliarsi a dismisura e da cui non vogliono farsi inghiottire. Non mancano i momenti ironici, come i popcorn inizialmente gettati in terra per dispetto e poi rimessi nel sacchetto e inavvertitamente mangiati da un personaggio, che già si vede in un letto di ospedale, mentre l’altro, mangiandoli a propria volta, fantastica sulla possibilità che dividano la stessa camera, magari morendo assieme. Il legame esclusivo di chi vede nell’altro un’occasione di dar senso ai propri giorni rende naturali le ellissi del racconto. L’amico ritardatario ha dimenticato un importante anniversario che non viene mai chiarito. Ha, inoltre, subito il trauma della perdita di una donna su cui non viene fatta chiarezza, lasciando indistinte le responsabilità. L’uomo ossessionato dal tempo (può dire con esattezza millimetrica da quanto si incontrano) e che afferma di aver avuto gli occhi sempre aperti, senza concedersi la possibilità di un sogno, un lusso che la vita non offre, rivela la propria natura di fraterno custode dell’equilibrio dell’altro, talmente confinato in se stesso dopo l’abbandono della misteriosa figura femminile da non mettere il naso fuori casa e costringerlo a osservarlo da un albergo equivoco di fronte all’abitazione, vegliando su ogni suo gesto. Quando, nel mese di ottobre, ha finto di incontrarlo e hanno bevuto insieme, il “sorvegliato” ha proposto di non lasciarsi più e di trascorrere insieme un’ora al giorno, fino alla morte. La pessima qualità del vino che avrebbe ispirato il patto è uno scherzoso antidoto al groppo in gola che è prevedibile avvertire a questo punto. Ecco allora che l’attenzione continua ai minuti condivisi non è una mania: è l’urgenza di sottrarsi al nulla, di affrontarlo come –dicono- gli uccelli migratori che si trovano sullo stesso filo per poi non vedersi mai più. E quando questo accadrà, né lacrime, né patemi, ma un ultimo brindisi di chi aspetterà invano il compagno. Un attimo prima del buio, uno allaccia in silenzio le scarpe all’altro con inaspettata tenerezza. Nessun momento è inutile, nessuna sensazione si è nascosta invano dietro i dialoghi: è il privilegio di essere fragili e soli.
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