mercoledì 13 agosto 2025

“Vito Carnale”, un’anima scissa

 

Che il buio dell’anima ambisca alla purezza con forza ancora maggiore di chi ama la razionalità è idea di cui l’arte è innamorata da sempre. Non importa quanto quell’altrove appaia una chimera: abita la carne con la stessa tenacia del vizio e delle ossessioni. È una discesa agli inferi e un inesausto bisogno di luce “Vito Carnale (centripeta) – Trascendenza disturbante in atto unico”, lo spettacolo, accolto con favore presso il Piccolo Teatro del Giullare, scritto, diretto e interpretato da Egidio Carbone Lucifero al fianco di una carismatica Marcella Vitiello. Una messa in gioco totale del corpo e di ogni energia possibile conduce a una performance difficile da dimenticare nella sua scomoda intensità e nella trama di rimandi filosofici ed esoterici, che mutano continuamente lo scenario. All’inizio della rappresentazione, la donna, seduta in poltrona con l’aria di sfida che solo le regine possiedono, porge un cappio al protagonista e lo terrà inizialmente 
sotto controllo nei suoi slanci irruenti e disturbanti. Difficile orientarsi tra gli stadi della coscienza di un personaggio irrisolto e agitato da forze contrastanti. Non è certo lontano dal vero, quando afferma di avere un tumore allo spirito: tutte le sensazioni e le prospettive, in effetti, crescono in lui a dismisura, impedendogli la calma borghese dell’equidistanza. La donna a cui si rivolge, dal nome evocativo di Angelina, è presentata come la vittima di una violenza efferata: le dice, infatti, “Ti ho spezzato con il piacere approssimativo della leggerezza”. Eppure non si tratta di un vero e proprio corpo, ma di un ibrido che riunisce carnalità, desideri incompiuti, tensione oltre la materia e contraddizioni dell’esistenza. Angelina è sarcastico contraltare, una Beatrice senza redenzione o saggezza, ostinazione della memoria, consapevolezza di come amare il tempo, il vento, il silenzio equivalga a un varco tra gli infiniti inganni della cosiddetta realtà. Vito, dal canto suo, anche quando si libera dal laccio, ma non dal pensiero di questo simbolo, non può che misurarsi con le maligne assurdità dell’esistenza individuale e collettiva. La domanda “Conosci qualcuno che mi può vendere almeno un chilo di equilibrio?” è destinata a cadere nel vuoto, ma non per questo il protagonista cessa di sputare la propria rabbia. Odia “questa società scialba, confusa”, che “è come una condanna alla brevità della vita”; detesta ogni forma di ipocrisia (“Con quale persona meschina ti stai alleando?”). I benefattori abusivi e gli uomini che si fanno comprare da tutti suscitano in lui una rabbia profonda. Ecco perché non può fare a meno di alimentare fantasie omicide su Angelina, mentre la invoca continuamente: proiettarsi verso una dimensione del tutto diversa da quella in cui agisce è un’urgenza talmente profonda da somigliare a un’insopportabile schiavitù, ma ciò non basta a cancellare tale impulso. La duplicità della narrazione, quindi, fa sì che le due figure in scena si alternino nella recitazione come mosse dallo stesso afflato. Vito è un ossimoro vivente: si definisce “fragile come zucchero filato, ambiguo come uno squalo” ed enumerare tutto quello che di insopportabile c’è in lui (l’odore di pesce putrefatto della casa, il sudore, il continuo oscillare tra aggressività e accoglienza, tra elegia e lotta) e nella quotidianità vuole essere uno sprone a superare di slancio le zavorre della mente. Ama ripetere che è venuto a trovarlo il suo cavallo bianco, con chiaro riferimento al mito platonico della biga, e vuole essere condotto “in quel posto rosso, quel posto dove non esiste il mese di agosto, dove non esiste la legge del corpo”. Si tratta dell’approdo della sapienza alchemica lungo le fasi Nigredo, Albedo, Rubedo, un riscatto dalle trappole della corporeità per giungere alla piena liberazione dello slancio vitale. La meta, tuttavia, è resa impervia dai limiti di quel groviglio informe che è la natura umana. Quando si afferma che Heidegger non ha voluto cedere i propri appunti sulla metafisica, perché occorre comprare il suo libro, si sottolinea sarcasticamente quanto l’obiettivo sia lontano. Le particelle, inoltre, non subiscono l’azione del tempo, ma noi sì. E il tempo è un continuo sottrarre, scarnificare, impoverire. Nelle tenebre misteriche, ben distanti dall’arroganza del Sole, che pretende di condizionare ogni sguardo, può forse annidarsi la salvezza. Risulta, allora, coerente che la voce di Enzo Moscato, esploratore dell’oltre, risuoni mentre un bicchiere di vino avanza su una piccola macchina semovente. Il vino è sacro a Dioniso, dio della parte oscura della mente, oltre che del teatro, e il tradimento di sé, cioè il superamento della materia, è ribadito dall’acqua di un bacile in cui Vito immerge la testa. La rottura del bicchiere è un amaro finale. Il posto rosso tenacemente sognato resta un’ambizione, un’ammaliante potenza che non diviene atto. Il caos della vita ci attornia, ci rende soli, persi tra fantasmi su cui riversare un amore illogico e brutale.
 

Nessun commento:

Posta un commento