mercoledì 6 agosto 2025

“Sergio”, le ambiguità del quotidiano

 


Si dà troppo spesso per scontato che la routine non riservi alcuna sorpresa, che non circondi alcun mistero. Eppure ciò che è sempre sotto gli occhi non si lascia mai decifrare fino in fondo. Spettacolo adatto a irritare gli epidermici, che hanno la sensazione (sbagliata) di trovarsi dinanzi a una vicenda eccessivamente semplice, “Sergio” di e con Francesca Sarteanesi, che si è avvalsa della collaborazione drammaturgica di Tommaso Cheli (i costumi sono di Rebecca Ihle), ha segnato, presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, la nuova tappa di Mutaverso, il progetto culturale diretto da Vincenzo Albano. Nell’incontro con il pubblico successivo alla messinscena, moderato dal giornalista Michele Di Donato, l’attrice ha dichiarato: “Volevo che nel testo non accadesse nulla. Non si tratta di puntare il dito contro il quotidiano: la mia protagonista non è una succube. Non giudico la scelta di vita di mettere in luce gli aspetti della persona amata”.  Una performance, tuttavia, può spingersi oltre le intenzioni di chi la crea senza tradirne le premesse. Che la figura maschile sia il centro attorno a cui ruota ogni cosa è fin da subito evidente: la donna, che parla con marcato accento toscano e di cui ignoriamo significativamente il nome, è sola nel vuoto completo del palco. Fa eccezione soltanto un bicchiere d’acqua, poggiato in terra, da cui ogni tanto beve a piccoli sorsi, proprio come una pianta che trae il proprio nutrimento da un elemento esterno. L’attrice e regista riesce a donare credibilità e forza a un personaggio quasi sempre immobile, una sorta di meridiana che scandisce l’unico tempo che valga, quello del convivente, e che giudica ora con atteggiamento bonario, ora con sarcasmo le scelte e le circostanze tra cui si muove un marito ingombrante, anche se non visibile. Sergio ama organizzare le vacanze con i genitori; suggestivi, i luoghi scelti dalla suocera, afferma lei, ma anche la suggestione stanca. Ha l’abitudine di lasciare aperte le bottiglie di acqua minerale; tanto vale, ribatte la moglie, comprare quelle di acqua non gassata. Ama andare agli appuntamenti in ritardo, quando è infinitamente più saggio muoversi per tempo. È ugualmente sordo alla cura del sudiciume del giardino come alla possibilità di concedersi una seconda colazione. È abilissimo nelle scenette western che fanno eccessivamente sbellicare, negli interminabili pranzi a base di pesce, Giuliana, l’amica della suocera, che non risparmia battute aspre sul menage dei due (“Dalle stelle alle stalle!”) e che discute con la madre di lui di ogni sofisticato argomento di attualità. I borghesi, del resto, non perdono occasione per sfoggiare una cultura e una consapevolezza che esistono soltanto nei loro sogni. Non sfuggendo, inoltre, al ritratto dell’italiano medio, Sergio elenca una serie di donne, quando la consorte lo invita a un gioco in cui indicare ciò di cui sentono entrambi la mancanza. Ed ecco che l’ordinario sbarra la strada a una piena comprensione. La mente di lui è spesso lontana e, quel che è peggio, ama quella lontananza: impossibile calcolare quanto tempo si rifugi in un altrove destinato a restare inaccessibile a chiunque altro. Si potrebbe affermare che la ritrosia a svelare i propri reali sentimenti è pari in lui a quella della coppia di amici, presso cui Sergio e la sua lei si recano per portare un regalo, ben nascosti in camera per sottrarsi all’incontro con quelli che, con buona probabilità, hanno definito “pallosi”. Facile bollare in questo modo la convivenza: quelli che esprimono questo giudizio non immaginano certo che Sergio abbia comprato delle manette per chissà quale gioco erotico, accettato dalla moglie per sfuggire al grigiore di una domenica qualunque, ma che le mette il gelo addosso se prova a ricordarlo. È, dunque, evidente che, per quanto il legame rinasca sempre da se stesso, vi è un’inconciliabilità tra la donna e il suo compagno: per lei è fondamentale “essere puliti, precisi, perbenino”, a Sergio basta essere del tutto concentrato su di sé, andare “dritto per la propria strada, dritto come il gambo di un dente di leone, che tutti chiamano piscialetto”. Ammirazione e maliziosa coscienza della velleità, desiderio e approccio da coniugi ormai vecchi diventano indistinguibili. Non è certo un caso che lei intoni “Canzone per te” di Sergio Endrigo, incentrata su una relazione che non sa morire, pur non avendo motivi per vivere. Da parte della figura principale non si ha un conflitto aperto, ma una vicinanza scricchiolante, una tendenza a cogliere la dissonanza non per risolverla o condannarla, ma semplicemente perché Sergio resta l’argomento preferito di una persona che accetta i confini di una vita orgogliosamente granitica. Si assiste a un autoinganno con sparuti lampi di consapevolezza che non portano da nessuna parte. Quando lui vuole sbarazzarsi delle mattonelle del bagno a cui lei si è ormai da tempo abituata, gli dice, risentita per il cambiamento: “Lo sai quanto ci vuole a creare un equilibrio?”. Crearlo comporta senza dubbio un’immensa fatica. Credere che non esista nient’altro, però, costa molto di più. 

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