mercoledì 13 agosto 2025

“Con tanto amore, Mario”, la tragicommedia di un uomo comune

 


Lo si vede in mezzo agli spettatori che attendono di prendere posto, mentre dal palco risuona il rumore del mare, e si accomoda in platea, come se a sua volta attendesse quel che accadrà in scena. Un inizio coerente con lo spirito dell’opera: chi può confondersi tra gli altri più facilmente di un uomo comune, per quanto buffo, con quei movimenti che ricordano talvolta il cinema muto? Eppure il più vivo tumulto di pensieri ed emozioni si annida proprio nella misconosciuta vita ordinaria. Notevole prova interpretativa di Paola Tintinelli, “Con tanto amore, Mario”, una produzione Astorri Tintinelli, è lo spettacolo che ha raccolto meritati applausi presso il Piccolo Teatro del Giullare di Salerno nell’ambito di Mutaverso, il progetto artistico curato da Vincenzo Albano. Come ha spiegato la protagonista nell’incontro con il pubblico coordinato dal giornalista Michele Di Donato, il titolo è un omaggio a una canzone di Mario Abbate, che infatti sottolinea a più riprese la malinconia e il desiderio di una vita diversa nel suo alter ego, oltre che una chiara allusione al “Mario” di Enzo Jannacci, sulla cui traccia è costruito un personaggio indifeso e sensibile come quello del grande artista milanese. Le parole del testo sono, in effetti, la migliore fotografia della messinscena: “Mario, io ti vedo alle sei di mattina girare/te e la tua bicicletta/Mario, due speranze nel cuore, un po’ di giardino/un sogno la tua casetta/alla sera ti fermi nel bar qui vicino giusto per bere un bicchiere/e nel bianco degli occhi nel rosso del vino/muoiono le sere”. È rilevante che proprio da suggestioni musicali nasca una performance interamente affidata alla mimica e alla gestualità. Se, infatti, la musica, arte evocativa per antonomasia, sfugge a comode categorie, il mistero che si cela in fondo a un’esistenza non può essere catturato dalle parole. Nella fase iniziale dell’azione, Mario, postino dedito alla propria occupazione, pesca e delimita con il nastro adesivo la propria casa. Nulla manca al tranquillo quadretto: lo zerbino, la cassetta per le lettere, il nano da giardino. Dopotutto, ognuno ha diritto al proprio microcosmo, ma nessuno spazio è immune dall’inquietudine. I timbri apposti selvaggiamente sulle cartoline, il minaccioso gracchiare degli uccelli mentre consegna la posta, la cura meticolosa con cui si nutre e vorrebbe esorcizzare la propria solitudine, offrendo anche al pubblico un po’ di cibo con una forchetta allungabile, sono tutti indizi di un’anima su cui incombe qualcosa che non si può rinchiudere nell’armadio d’acciaio da cui tira fuori tutti gli oggetti con cui interagisce. Si tratta di un condizionamento plumbeo dello spirito (non si fa fatica a immaginare un contesto dittatoriale), che proviene da un altoparlante legato a un lampione, a cui è collegato anche uno specchio stradale. Ciò che viene divulgato, in effetti, deve essere una guida al pari della luce nella notte e lo specchio è un incoraggiamento a guardarsi le spalle, perché uno sguardo dinanzi a sé significherebbe opportunità e, quindi, evasione da uno schema. Le comunicazioni dell’altoparlante mortificano ogni slancio. Viene data notizia di perturbazioni: il cirrus suicidatus, che fa gravare sulla nazione una nera malinconia, dove il canto del grillo non dà ristoro e l’albero scarno non dà riposo e il cirrus uncinatus, che inchioda a incubi di schiavitù, mentre “dietro di voi c’è un’alluvione di passato e dinanzi a voi s’ingorga il futuro”. Echeggia anche un sermone, in cui brani del discorso finale ne “Il grande dittatore” di Chaplin risultano deformati: l’esortazione a essere uomini e non macchine, difatti, cade nel vuoto, dato che è esattamente il contrario che il sistema si aspetta nell’eterno copione di “nascita e copula e morte”. Mario non resta inerte. Ai messaggi foschi reagisce sulle note dell’ouverture de “La gazza ladra” rossiniana con una bandierina di auguri, un minuscolo albero di Natale e un piccolo pandoro, ricordando la rinascita a cui la celebrazione allude, o scoprendo gli abiti giuntigli per posta o festeggiando il capodanno con tanto di stellina natalizia e mortaretti. Gli indumenti, in particolare, (un baby doll rosso con cui mimerà un atto sessuale), un completo maschile minuscolo e indossato con somma fatica e un muscoloso pupazzo meritevole di sputo sono tutte allusioni a stereotipi duri a morire, con cui si è costretti a misurarsi in modo grottesco. Il personaggio vorrebbe essere semplicemente umano, ma poiché i condizionamenti sociali sono ineludibili, non gli resta che rinchiudere tutto nell’armadio, che diventa anche la propria bara, mentre l’altoparlante, con la pedanteria del marito di Magda in “Bianco, rosso e verdone”, gli ricorda i documenti da portare con sé, con un lumino e il nano da giardino a vegliare. Resta un cartello con su appeso “Qui c’era il mare”. Diventare se stessi senza catene, mentre suona la canzone di Jannacci, è più di quanto sia concesso ai tragicomici uomini comuni. E si esce dalla sala sapendo che molto di noi si trova lì, in quel grigio, inutile sepolcro.  

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