mercoledì 25 giugno 2025

Katherine Mansfield, un’anima in fiamme

 


“Ma così si veste una puttana!”, pensa Virginia Woolf, quando la vede per la prima volta, considerandola simile a un “gatto solitario, osservatore”. Eppure le anime in fiamme si riconoscono e l’autrice di “Gita al faro” le proporrà di pubblicare una delle sue opere più famose, “Preludio”, attraverso la propria casa editrice. A Katherine Mansfield è dedicato “Ho sentito il bisogno di dirlo a qualcuno”, lo spettacolo, che ha inaugurato la stagione del Piccolo Teatro del Giullare, di cui la protagonista Francesca Pica cura l’elaborazione drammaturgica, mentre le musiche originali e la drammaturgia del suono portano la firma di Carlo Roselli; l’allestimento, invece, è di Domenico Latronico. Francesca Pica si misura con un ruolo a lei particolarmente congeniale, perché la totale generosità e l’acuto senso del ritmo narrativo con cui sostanzia attese, ricordi, aspirazioni di colei che desiderava essere “quante più donne possibili” conducono a un sagace equilibrio tra ironia e dramma, tra ansia di vivere e solitudine. Le musiche di Roselli non rappresentano una semplice colonna sonora, ma ampliano suggestioni di gesti e parole, dando l’impressione che il cuore della  Manfield sia sempre a nudo, anche nei rari momenti in cui esce di scena. Tra stralci di racconti, pagine di diario, eventi riletti finalmente con gli occhi di questa scrittrice e non dei benpensanti che non le hanno mai perdonato nulla, prende corpo una biografia emotiva, in cui il desiderio di esprimersi senza filtri è stato pagato molto caro, perché, come Katherine dice a se stessa, “Hai passato tutta la vita a scrivere, a innamorarti”. La leggerezza con cui questa figura ha lasciato il segno non è meno presente, nella pièce, della sua passionalità: per questo entra in scena come se il vento la muovesse insieme al suo grazioso ombrellino, mentre pronuncia i tanti nomi che ha voluto darsi nel corso degli anni (chi ha preteso di legarla a un nome solo, cioè a un ruolo, è rimasto deluso). Il vento è incostante, inafferrabile, tenace, proprio come questa donna, pronta a spazzare via le comode certezze borghesi fin da giovanissima, quando il suo attaccamento all’amica di sempre, Ida Baker, induce la madre a spedirla in Baviera “per appetiti sessuali non conformi”. Non sono certo le costrizioni a scoraggiarla dal tuffarsi nelle cose, che sia la cerchia di amici della Woolf o il maestoso paesaggio dei Maori, dove risonanze profonde le resteranno sotto la pelle. Nutrirsi della natura, sia pur trasfigurata secondo il proprio stato d’animo, sarà infatti una costante in un percorso irregolare. Il padre può rinchiuderla in camera quanto vuole, ma non può affievolire il primo amore per Mata, principessa maori dal viso che emana pace, pur nelle sue “linee crudelmente selvagge . Quando il genitore le riserva una rendita ridicola e la madre la disereda, Katherine, sola in quella Londra che le aveva fatto tante promesse, deve combattere con molte difficoltà: due aborti, un matrimonio riparatore di un solo giorno, un’esistenza randagia in cui è violoncellista, attrice, artista del circo, le nozze con John Middleton Murry, che la comprende, ma da cui lei fugge a più riprese, perché non esiste sosta, se si vuole essere attraversate da mille modi di vivere. Neanche la scoperta della tisi riesce a placare la sete di appartenere al mondo, respirarlo in tutte le sue dimensioni. Solo lei può paragonare il proprio stato e quello di un paziente del sanatorio, scossi entrambi da un’orrenda tosse, a “due galli in falso chiarore di albe”. Non è, però, solo il male fisico a tormentarla: il ricordo dell’amatissimo Boogie, il fratello morto nella Prima Guerra Mondiale, la ricerca di una meta, che si trasforma subito in una nuova partenza, la spossano non meno della malattia. È, dunque, coerente la scelta di portare sul palco due racconti come  Pictures  e Soffia il vento. Nel primo, Miss Moss si accompagna a un uomo dopo aver cercato invano lavoro presso gli impresari, nel secondo un’infanzia felice accorcia ogni distanza. Durezza del quotidiano e sogno hanno dominato l’esistenza di Katherine. Non può che morire a Fontainebleau, tra gli animali, danzando nel vento come all’inizio della messinscena: lontano da schemi, codici, paradigmi. Il solo modo di entrare nella morte a occhi aperti.    

“Rumore bianco”, la “normalità” che uccide

 


Provate a restare sintonizzati su un canale televisivo che non trasmette nulla, ma diffonde il proprio ronzio nella stanza. All’inizio potrà sembrarvi fastidioso, ma vi abituerete presto e vi sembrerà naturale che scandisca la vostra giornata, dia il ritmo ai vostri pensieri. La cosiddetta normalità è così: pervade le esistenze e non ci si accorge di come le faccia a pezzi. Applaudito calorosamente dal pubblico del Piccolo Teatro del Giullare, “Rumore bianco”, diretto da Yari Gugliucci e interpretato e scritto da Danilo Napoli, si avvale dell’aiuto regia di Antonietta Barcellona, degli elementi di scena di Anna Simeoli, del disegno luci di Virna Prescenzo, mentre le voci fuori campo sono di Gennaro Ciotola e Michele Vargiu e i costumi portano la firma del Convitto Nazionale Statale T. Tasso e Antonio Siniscalchi. L’interprete dà prova di notevole carisma in un ruolo a dir poco disturbante, orchestrando passione e amarezza, sarcasmo e sofferenza con un minuzioso lavoro su ogni gesto e silenzio, per cui quello a cui si assiste è ben più di un monologo: è una discesa lenta e inesorabile nel buio di chi ha ceduto troppo terreno alla pressione sociale e a quei condizionamenti crudeli e subdoli che si annidano in troppe famiglie. Lo spettacolo si basa su una serie di scelte precise, che ampliano il fluire delle emozioni. Il pupazzo dalle fattezze femminili su una sedia in cantina, all’inizio della rappresentazione, è visibile prima ancora del protagonista e si rivelerà essere sua madre. Questo tempismo è motivato: la pretesa di modellare un individuo sulla base di convenzioni rassicuranti è preesistente alla vita stessa; si potrebbe dire che l’attenda al varco per darla in pasto a una morale tanto più feroce quanto più disposta a darsi il crisma della rispettabilità.  Il debito verso Psyco non è disconosciuto, ma ripensato: nel capolavoro hitchcockiano, il corpo materno è un mezzo per scongiurare un gigantesco senso di colpa, mentre sul palco diventa il correlativo oggettivo del vuoto involucro che sono i giorni del figlio, destinato, nella prospettiva dei genitori, a diventare un venerando padre di famiglia, dedito a un mortifero lavoro stabile in Comune. Il giovane è, invece, un serial killer di donne trans per reprimere invano il proprio orientamento sessuale e, quando ricorda la sua prima vittima, Rossella, all’anagrafe Cristiano (ma a che serve mutare nome, se si è scelto di essere liberi?) rivive il difficile tentativo di uscire allo scoperto tra le reazioni disgustate dei compagni con cui gioca a calcio, le cinghiate del padre fascista (gliela aveva regalata lui, quella cintura! A saperlo, tanto sarebbe valso acquistarla dai cinesi), la prostituzione, un assurdo cliente che pretenderebbe di lanciargli coltelli come in un circo, a dimostrazione di come siamo tutti oggetto di desideri inconfessabili, la presenza al funerale paterno, ripagata da calci e pugni. Ecco, però, che la vicenda appena raccontata è la propria: Cristiano/Rossella è l’assassino, vessato in una setta che lo annichilisce, mentre il rumore bianco fa da sottofondo (“Dove non arriva la scienza, arriva la fede”, afferma la madre). Oltre al perbenismo borghese, il bersaglio colpito con ferocia è appunto la religione : il fantomatico padre John (in realtà proveniente da Catanzaro), perfetto esempio di ipocrisia, si sgola nel proclamarsi guarito dall’omosessualità grazie a Cristo, ma il personaggio principale non può fare a meno di immaginare il Salvatore con addominali da urlo nell’atto di proporre “Ti va un po’di Inri, solo io e te?”. Vittima e carnefice nello stesso tempo, Cristiano interiorizza fino alle estreme conseguenze la violenza subita, mentre un televisore annuncia che il cerchio si stringe attorno all’omicida, ma la conclusione è una pacificazione quanto mai ambigua. Desideroso di annullarsi in quel fruscio cosmico che coprirà tutto, dato che il dolore non conosce redenzione, fa il gesto di spararsi, per poi presentarsi in abiti femminili al fantoccio e perdonarlo, trascinandolo in una danza, nel momento in cui una voce gli comunica tranquillamente che è pronto in tavola. Non si tratta di uno scampolo di vittoria. Un’armonia tra coscienza e sistema è possibile solo in uno stadio allucinatorio, in un angolo profondo dell’anima, dove riscoprirsi al tempo stesso figli e nuove identità. Inutile chiedere un briciolo di empatia al pulito e ordinato mondo dei borghesi: la loro etica è simile a quel pupazzo, inerte come i corpi su cui adora accanirsi.  

Scannasurice”, un’indimenticabile Imma Villa nella Napoli di Moscato

 

Che gli inconvenienti siano tanti è innegabile: rosicchiano quaderni, prediligono i glutei delle ragazze, organizzano improvvidamente festini “a fronn e limon”, per tacere di quella superiorità, quell’”albagia” che fa venire voglia di impiccarli sulla pubblica piazza, così da non lasciare soli Corradino di Svevia e Luisa Sanfelice. Eppure i topi, che, non visti, percorrono la messinscena, non sono semplicemente ospiti spesso sgraditi: sono i napoletani stessi, ovvero l’umanità intera. Copione di una forza inaudita che segna il debutto di Enzo Moscato come autore e interprete nel 1982, “Scannasurice”, proposto con successo presso la Sala Pasolini di Salerno, vede all’opera un’Imma Villa, per la regia di Carlo Cerciello, che sa affascinare in ogni declinazione della tenerezza, della ferocia, del sarcasmo. Fin da questo testo, Moscato esprime in un linguaggio meticcio e raffinato ossessioni che innerveranno il suo percorso artistico: la mescolanza di sacro e profano, il confine perennemente labile tra vita e morte, le ferite mai sanate nel corpo di una città che si fa immagine del disturbante e della pienezza vitale, anche quando, per dirla con Lucano, le macerie stesse vanno in rovina. La scenografia è eloquente: un palazzo che sembra essere rimasto a stento in piedi dopo un bombardamento, privo di finestre, una struttura ridotta a scheletro tra miseria e immondizia. Il bum bum bum a cui allude la protagonista, un femminiello e dunque, nel suo essere al tempo stesso uomo e donna, emblema di ogni ambiguità, è associabile al terremoto, ma anche alla guerra, al degrado cui ogni violenza, in qualunque luogo e tempo, può giungere. Ecco perchè è citata “la solita fravec di San Pietro, u scav i’Pompei”: tutto viene distrutto e tutto fa fatica a emergere da quella distruzione. Scannasurice è una sopravvissuta “sub specie Sibyllae”, una figura che si fa varco tra buio e luce e questo la rende una sorta di ponte tra ciò che è stato e ciò che è: i suoi racconti, che hanno del fiabesco, dell’esoterico e riflettono contemporaneamente malesseri e attese di ogni realtà, conducono in una Napoli sempre sospesa tra differenti livelli della percezione. La signorina Rosina, che, “quando l’utero era dritto”, faceva sentire il proprio canto fino a Via Medina (il suono, nel suo carattere allusivo, è fondamentale dove visibile e invisibile s’inseguono) e viene trovata morta, circondata da dodici topi, come se avessero voluto suicidarsi in perfetto accordo, racchiude nella propria pelle storie sempre diverse e sempre uguali di sfruttamento e desideri impudichi. Significativo che la casa della signorina diventi “un porto di mare nero”, dove si affollano gli africani: nuovi outsiders subentrano agli antichi. Scarafaggi e topi, considerati dalla nonna della protagonista ambasciatori della bella mbriana, ricordano che anche in quel che è considerato infimo si annida la bellezza dell’ineffabile, evocata da una filastrocca, non a caso forma prelogica di conoscenza. L’amore per Eduardo, inoltre, è presente nella predilezione di Scannasurice per uno studente, con una chiara eco di “Gennariniello”, mentre, nel racconto di Totore e Nannina, le atmosfere di “Questi fantasmi” sono ripensate nell’ottica del mistero, visto che “a casa è intonaco e divinità: guai a chi nun ce crer”. La coppia con la figlioletta va ad abitare in un immenso palazzo “spagnolesco”, dove la piccola passa dal pianto più disperato al riso più assurdo, finchè una voce (il munaciello? I defunti? Gli angeli?) esorta i genitori, dopo aver riempito di monete d’oro le fasce della bambina, ad abbandonare il palazzo, che crolla pochi istanti dopo la fuga dei tre e del numero civico non si avrà mai più traccia. In quel labirinto che è la vita, infatti, dove gli eccessi della gioia e del dolore possono coincidere, la vera fortuna si ottiene offrendo una possibilità a quella dimensione incategorizzabile che si annida ben oltre l’assodato e che non teme di abbattere quel che appare saldo. Le note della Boheme e di Madame Butterfly, nella loro dolcezza struggente, esprimono un tenace desiderio di  rinascita e di abbandono a una carne che sia finalmente rifugio e non segno di esclusione. In un simile contesto, appare naturale che gli abitanti di Napoli siano sorci, cioè creature che sopravvivono traendo energia dal basso e giocando con la sorte, di cui sono metafora i tarocchi appesi, ma la Vergine che progetta di sterminarli, versando curaro nell’acqua pubblica, pur essendo a sua volta protesa invano verso il sole, cioè la libera essenza del vivere, incarna il tentativo di razionalizzare, rinchiudere in uno schema prevedibile chi, con impudenza, non vuole essere addomesticato. La conclusione è tragica: Scannasurice si toglie la vita proprio bevendo al tubo dell’acqua avvelenata. Eppure nulla muore davvero nella città di Moscato: troppi sogni attendono di essere sognati, nuove voci attendono solo di risvegliarsi dal buio più profondo. 

“Lido per mari unici”, danzando col passato

 

E’ facile considerarlo superato, archiviato, innocuo, ma il passato sa essere beffardo: si ripresenta quando vuole, cambia le coordinate e l’assodato muta subito prospettiva. È un viaggio interiore a ritroso che cambia sempre direzione “Lido per mari unici”, lo spettacolo, nato all’insegna della produzione artistica di Progetto L’Ait, scritto, diretto e interpretato da Francesca Morgante, che ha riscosso un pieno successo al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno. Le scene portano la firma di Vincenzo Fiorillo e Paolo Iammarrone, Angela Rosa D’Auria è aiuto regia, Luciana Donadio cura i costumi e Ivo Parlati le musiche, mentre il light designer è Sebastiano Cautiero e la voce off appartiene a Luca Lombardi.  L’illustrazione della locandina è di Simona Fredella e la grafica è di Francesco Luongo. Quando lo spettacolo ha inizio, la protagonista ascolta al cellulare i messaggi di un compagno troppo distratto dal proprio ego per perdonarle la sua dinamica vita di attrice e quindi decide di abbandonarla, “di prendersi un tempo”, ma non definitivamente: dove potrebbe mai trovare un’altra come lei? Sin dal principio, dunque, si ha un senso di sospensione, un oscillare tra libertà e legame che però opprime chi lo prova e la spinge al gesto di vomitare nella borsa che porta sempre con sé, correlativo oggettivo di un mondo affollato di ricordi. Ed è proprio allora, nello schianto del dolore, che si ripresenta alla mente la nonna, la presenza più affettuosa nella vita della giovane, con il suo ricorrente incoraggiamento “Stringi i pugni a nonna!”. Da quel momento, dalla nascita fino al presente (se è lecito chiamarlo così: sono le sensazioni a generare il tempo), la protagonista si trasforma nelle figure che ha incontrato: la madre amorevole, la suora dal piglio marziale alla colonia, la signora al lido che crede che i laboratori artistici abbiano a che fare con l’Asl, il venditore che promette meraviglie, il goffo ragazzo che la palpeggia proponendole una relazione, il vedovo disincantato. L’interprete canta le canzoni di una stagione ormai trascorsa, da “Aveva un bavero” a “Il mare”, ridiventa la bambina vivace che raccoglieva tutte le proprie forze per tuffarsi, è di volta in volta adolescente o donna a seconda di quello che una parola o un’immagine suscitano in lei. La scelta di interpretare tutti i personaggi risulta, quindi, naturale: siamo il risultato delle nostre relazioni e delle nostre attese, ma il padre, cercato e invocato nella gioia, nell’inquietudine, nei momenti bui, non è interpretato da lei. È, infatti, la risposta e il calore che ci si aspetta dall’esterno, perché se è vero, come dice la madre, che siamo spiagge e il mare, evocato da un ombrellone, una sdraio, una striscia di blu, è la realtà da attraversare, è altrettanto vero che si è facilmente in affanno, soprattutto se ci si rinchiude in una trappola. E la trappola scatta nel momento in cui “il principe consorte” ritorna: l’amante le impone la propria volontà e lei si ritrova circondata da scheletri di ombrelloni, chiamando angosciosamente in aiuto il padre. Quegli oggetti simboleggiano, oltre al predominio maschile, la morte delle illusioni giovanili, le costrizioni sociali, tanto che uno di essi rappresenta la statua di San Giovanni portata in processione, come si addice alle brave ragazze. Sarà il ricordo di una canzone a darle la forza di liberarsi, dato che il passato non è solo causa, ma energia infusa nel presente. Quando getterà felice all’aria una grande quantità di petali (la consapevolezza è un rifiorire), tornerà il monito della nonna: bisogna stringere i pugni anche e soprattutto per difendere il proprio sguardo su quel mare che è il mondo.

“Bek Steig”, la forza liberatrice del canto

 


Una vita invidiabile tra lustrini e applausi? Per chi osserva dalla platea, probabilmente, ma un’artista deve fare i conti con mille problemi, tutti congegnati per mandare il buonumore a farsi benedire. Per fortuna il canto ha una forza liberatrice in ogni circostanza. Accolto con entusiasmo da un teatro Pasolini gremito, “Bek Steig”, lo spettacolo scritto e diretto dal duo Ebbanesis, Viviana Cangiano e Serena Pisa alla chitarra, che si avvale dello spazio scenico di Riccardo Citro e dell’arredamento e  dei costumi di Giuseppe Barbato, vede all’opera le due coinvolgenti interpreti in un’appassionata e giocosa rivisitazione della musica napoletana, tramutando ogni dettaglio di un’esile narrazione nel pretesto per addentrarsi con energia scanzonata tra brani memorabili e divertissement. L’azione è immaginata all’interno di un camerino che non potrebbe essere più stravagante: un busto di donna, un metronomo, un cavallo a  dondolo, valigie e  vestiti eccentrici.  Il correlativo oggettivo, quindi, di un’esistenza consacrata alla scena tra esibizionismo, fanciullezza e approccio concreto alla quotidianità. Serena, che sente addosso gli anni come se fossero macigni, non sa rassegnarsi al fatto di avere “un viso deturpato dalla maternità”, alludendo scherzosamente al Pirandello di “Uno, nessuno e centomila”, quando mostra che, a seconda della prospettiva da cui si guardi il suo naso, il suo volto appare totalmente diverso. Quel dettaglio fisico, per cui si finge inquieta, le regalerà una cocente delusione, visto che un provino non va a buon fine proprio perché chi l’ha esaminata desidererebbe un naso ancora più imponente. Si dimostra, quindi, come il mondo teatrale sia incontentabile e sempre disposto a pretendere più di quanto si possa offrire, mentre l’infame vecchiaia avanza, togliendo smalto e leggerezza. Viviana, che cerca con ottimismo il lato positivo di non essere una silfide, non può, a questo punto, che coinvolgere l’amica in una versione di “Non ho l’età” tra ritmi sempre cangianti, che oscillano dal languido alla danza vorticosa. Un mazzo di rose arrivato in camerino, che si scoprirà provenire da un antico amore di Viviana, dà il via a una sorta di medley in cui si spazia da “Una rosa blu” a “T’aggia purtat na rosa” per poi concludere con la versione partenopea de “La solitudine”, in cui il protagonista è esortato a restare solo, liberando da ogni ossessione il cuore femminile. Si ha un bel dire, tuttavia, che il biglietto che accompagna i fiori, consegnato da Serena nei panni del postino di Maria de Filippi, sia opera di Chatgpt: resta comunque lo struggimento nel leggerlo. Cosa è più melodico, in fondo, di una storia finita che priva tutto di senso? Ma è il momento di volgersi a mete più ambiziose: sono o non sono state le prime donne a suonare in un luogo pubblico in Arabia Saudita? Le porte in faccia che caratterizzano il loro mestiere non devono impensierirle, perché bisogna mettersi continuamente in gioco: cosa che avviene alla Sagra di Giugliano, partecipando a Gigione and Friends, senza dimenticare, nella storia da pubblicare su Instagram, di taggare la prestigiosa associazione culturale Frienn Magnan. Il compenso promesso sottobanco dal parroco del paese, dopotutto, è abbastanza sostanzioso da chiudere un occhio. Si ironizza, quindi, sui compromessi a cui deve scendere chiunque voglia costruire la propria celebrità in campo artistico: l’amore della musa passa anche attraverso vie non proprio luminose. Una voce inquisitoria, nel frattempo, ricorda fuori campo, in modo sgraziato, quanto manca all’andare in scena, ma c’è sempre tempo per trasformare in salsa napoletana “Bohemian Rapsody”, per dedicarsi poi a “Billy Jean” col grande timore di Viviana. Rimprovera, infatti, la compagna di essere un ologramma proveniente dal passato, capace di trasformare il capolavoro di Micheal Jackson in una villanella, ma si dà il caso che, secondo Serena, il pezzo sia in realtà “una tarantella che non hai manco l’idea”, per cui la riscrittura della canzone si tramuta in una parodia di grande effetto. La contaminazione, parola molto cara a chi si è dedicato all’arte negli ultimi tempi, porta, inoltre, a unire in un curioso e affascinante ibrido “Voc’e notte” e “Killing me softely”. Mescolare i confini fino a disperderli è, in effetti, tipico della cultura napoletana: le luci che vengono meno di colpo, le porte del teatro che si sono aperte da sole all’arrivo delle due protagoniste e la voce beffarda del capocomico sono tutti indizi di un mondo “altro” che si materializza sul palco, il luogo di tutti gli opposti, proprio come il sogno di Viviana, che, tramutando la realtà, immagina Serena cantare in vernacolo “Alfonsina y el mar” di Mercedes Sosa. L’alternanza di momenti lirici e ironici obbedisce a un attento equilibrio e la conclusione della messinscena è affidata al contatto diretto col pubblico tra gli echi della Tamurriata nera e l’omaggio a All that jazz. Tutto è possibile cantando: passato e presente diventano i due volti di una piena vitalità. 

“Contractions”, la spietata legge del profitto

 


La trasparenza delle relazioni e la cura dei dipendenti sono alla base di un’azienda vincente. È quindi naturale che avvengano colloqui chiarificatori sull’approccio al lavoro : occorrono, infatti, garbo e tenacia per far capire che la produttività è tutto. Agghiacciante percorso dall’identità all’alienazione attraverso la pervasività del potere, “Contractions/Contrazioni” di Mike Bartlett è lo spettacolo, basato sulla traduzione di Monica Capuani, che Francesco Saponaro ha diretto presso il Teatro Ghirelli. L’allestimento si basa su pochi elementi efficaci: la manager, che appare fin dall’inizio ieratica presso la propria scrivania, è sempre in scena (Valentina Acca, che rende credibile una figura sinistra attraverso un perfetto dominio del ruolo), perché costante è la pretesa di manipolare secondo la logica del profitto. La struttura a un solo ingresso da cui entra ed esce la dipendente Emma (Federica Sandrini, che orchestra con sagacia le emozioni del personaggio) evoca l’idea di una trappola per topi, sia pur nelle sue linee asettiche, e proietta, attraverso le pareti semitrasparenti, la sua ombra, annichilendola o ingigantendola, perché chi lavora per una multinazionale e deve mirare a ottimi dati di vendita è effettivamente un fantasma, quando pretende (che sconcia perdita di tempo!) di vivere secondo le proprie regole. Tutto ciò che non sia programmabile secondo i criteri aziendali, il desiderio, in particolare, deve essere ridotto all’angolo e cancellato. Ecco allora che i quattordici incontri tra la manager e l’impiegata diventano tasselli di un assedio sempre più opprimente, in cui le domande si mutano in imposizioni e minacce. La donna al comando chiede se vi sia accordo tra Emma e i colleghi, per poi ricordarle il divieto – come da contratto- di avere in azienda una relazione sessuale o sentimentale (parola che ha implicazione legale, ricorda, e che indica qualunque atto faccia progredire il rapporto in direzione dell’amore). L’impiegata, nonostante resistenze e proteste, subisce una vera e propria colonizzazione del privato : il legame con il collega Dario è controllato in ogni dettaglio, si formulano ipotesi sulla durata della storia e gli amanti sono costretti a lasciarsi dopo sei mesi, esattamente come previsto dalla media dei dati che li riguardano, pena il licenziamento per negligenza professionale e truffa, mentre Dario è ricollocato dapprima a venti chilometri di distanza e in seguito a Kiev. Che Emma divenga, nel frattempo, madre (il congedo per maternità le viene ricordato come un rimprovero sotto il velo di un’apparente comprensione) è un ulteriore problema: finchè il figlio è in vita, come interrompere davvero una relazione parzialmente sessuale per riavere al lavoro due validissimi elementi? La morte del bambino non è, inoltre, sufficiente : non basta un semplice certificato che l’attesti, ma occorre il corpo, così che lo si possa comparare con il DNA della madre. Ormai alla deriva, quest’ultima arriva a riesumare il piccolo con le proprie mani, puntando in faccia all’interlocutrice una torcia, sperando invano di scorgervi una traccia di umanità. Né è possibile licenziarsi : il sistema ha bisogno delle proprie pedine. Poiché, in questo contesto, non è consentita neppure la disperazione, una visita psichiatrica completerà l’opera e muterà Emma in una lavoratrice brillante e felice di esistere a una dimensione. E lo spettatore non può fare a meno di pensare che la realtà sia feroce quanto questa vicenda paradossale.   

“Molière uanmensciò”, un inno al talento in ogni tempo

 


Se Molière vivesse ai nostri giorni, lo si incoraggerebbe a dedicarsi a spot, fiction, presenze incongrue sui social, perché conta solo vendere e vendersi. Eppure “il ragazzo brutto ma buffo, sempre con un libro in mano”, che il grande autore è probabilmente stato, saprebbe, oggi come allora, che “il talento è il dialogo incessante con il tuo desiderio”.  Trascinante monologo in cui si mescolano critica sociale, ironia e passione, “Molière uanmensciò (o come volete voi)” è lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Fabrizio Falco presso il Teatro Ghirelli con un magistrale senso del ritmo. Nel muoversi, infatti, tra la narrazione e l’interpretazione dei personaggi che interagiscono col protagonista, l’interprete, che ha ottenuto il Premio Ubu, trasforma il passato in qualcosa di vivo e pulsante, terreno fertile per una consapevolezza mai scontata del ruolo dell’artista. Chi crede, dunque,  che le biografie siano qualcosa di ammuffito, capace solo di annoiare a morte, può ricredersi: le vicende del  portentoso “atleta completo del teatro” caro a Luigi XIV hanno molto da dire anche a quello scenario spesso assurdo che è l’Italia di oggi. Al momento di assecondare la propria passione per le scene, Molière è costretto a scontrarsi col padre, uomo pragmatico, tappezziere di corte, incapace di accettare una vita miserabile, condannata da santa madre Chiesa? Sono tuttora innumerevoli i genitori decisi a piegare i figli ai propri progetti, soprattutto nel Bel Paese, dove si è ragazzi fino a cinquant’anni. Il futuro artefice di capolavori immortali ha sperimentato l’insuccesso e la miseria? Lo stesso Falco inizia il suo spettacolo rivolgendosi a tratti a una sedia vuota, dove avrebbe dovuto sedersi il musicista che non ha potuto pagare, perché chi ama il palcoscenico trova sempre il modo di scontare questa vocazione. Egocentrismo ed emulazione, inoltre, sono inscindibili in chi fa arte: è Tiberio Fiorelli a insegnare al nostro eroe tutti i segreti della comicità. Più di trecento anni prima di ogni dissertazione sulle relazioni, gli amori tossici in Molière vedono puntualmente sconfitti gli uomini, ma nella nostra epoca così libera non vi è ancora una seria riflessione maschile su questo tema. Aspetto sempre ricorrente, manco a dirlo, è l’avversione per i talentuosi: dopo aver parodiato un certo tipo di salotto con “Le preziose ridicole” e aver conquistato il pubblico con “La scuola delle mogli”, lo scrittore deve fronteggiare  gli attori dell’Hotel du Bourgogne, pronti a danneggiarlo in ogni modo immaginabile. Molière, tuttavia, “non ce la fa a non essere se stesso, malgrado se stesso” e il fatto che sia impedita la pubblica messinscena del “Tartufo”, a cui non si perdona lo spietato ritratto di un manipolatore, non gli impedisce di dedicarsi al libertino più affascinante di ogni tempo, il “Don Giovanni”, su cui piomba implacabile la censura. Si giunge così al “Misantropo”, dove la passione polverizza ogni approccio razionale alla Cartesio e che possiede “una grazia straordinaria nella sua cupezza”. Le delusioni, gli affanni, i problemi di salute stroncano il protagonista dopo un allestimento de “Il malato immaginario”, ma la vera malattia è credere che il teatro sia un inutile passatempo, quando sa essere antidoto a ogni male oscuro.

“Stupidorisiko”, la pericolosità dell’homo bellicus

 


“Niente è impossibile per l’homo bellicus”, dato che “c’è sempre la parola pace, quando c’è da scatenare una guerra”. Spettacolo promosso da Emergency per le scuole, ma capace di sedurre anche un pubblico adulto, “Stupidorisiko”, per la drammaturgia e regia di Patrizia Pasqui, vede all’opera un Francesco Grossi energico e ammaliante, che ha conquistato gli spettatori del Teatro Ghirelli. L’interprete è di volta in volta un sergente dal profondo senso dell’uguaglianza nei confronti delle truppe (“qui non conta un cazzo nessuno”), un marine toscano che trova “ganzo” il proprio ruolo, smascherandone l’assurdità con ironico candore, un soldato del 1915 in una trincea in cui “neanche le bestie ci starebbero”, la guida di una scolaresca a Mauthausen, dove “anche gli uccelli giravano al largo: sapevano che qui c’era la morte”, un narratore che si muove agilmente tra i conflitti che hanno strangolato il pianeta fin dallo sparo di Gavrilo Princip. Incarnare la narrazione e osservarla dall’esterno sono scelte che si alternano di continuo per scarnificare con maggiore efficacia la retorica militare, che , attraverso la propaganda, dissocia corpo e azione e impone la sola prospettiva utile al carnefice di turno. Nella performance di Grossi, al contrario, le parole assumono il peso e la sostanza dell’affanno, della dissoluzione, dell’urgenza di vivere nonostante piovano bombe in ogni dove e sarcasmo, denuncia, dolore, liberatoria irrisione del potere sono orchestrate con appassionata dedizione. Quattordicimilaseicento guerre, quattrocentoventi morti al giorno nella sola Italia durante la Prima Guerra Mondiale e cinquantacinque milioni di morti dopo la Seconda  avrebbero dovuto insegnare qualcosa. Trasformare i Paesi in ossari è davvero il giusto prezzo da pagare alla stupidità e megalomania umana? Evidentemente sì, risponderebbero gli inventori della guerra umanitaria, dove “per salvare i civili  si uccidono altri civili”. Che si tratti di Guernica o delle guerre in Congo per il Coltan, dell’ipocrita lotta a Saddam Hussein , il miglior cliente dei venditori di armi occidentali, o dello scempio in Afghanistan, il copione si ripete con ottusa tenacia: la popolazione è sacrificata a interessi considerati improcrastinabili. Non a caso, il bisnonno del marine, che ritroviamo su diversi fronti, crede che la sua sia l’ultima guerra: un’illusione che va in pezzi come le città bombardate. Ecco perché Grossi afferma “Io ero un congolano, un eritreo, un sudamericano”: nessun luogo è troppo distante, quando esiste un assassino vestito da soldato. I guerrafondai, come se non bastasse, non tollerano di essere contraddetti: basterebbe pensare a Stanislav Petrov, costretto alle dimissioni per aver scongiurato, nel 1983, il terzo conflitto mondiale, quando capì che il computer che stava controllando aveva lanciato il falso allarme di un attacco americano. Eppure rassegnarsi non è un’ipotesi da contemplare: di qui l’esortazione a sostenere Emergency nell’ennesimo tentativo di far cessare il fuoco. Lo stupido Risiko fa sempre in tempo a ricomporre i propri pezzi, ma far saltare il tavolo è compito che spetta a ognuno di noi.

Cenerentola, la ricerca di sé tra luci e ombre

 


Facile crederla soltanto una vittima bisognosa di un aiuto dall’alto. Cenerentola, in realtà, può incarnare un eroismo della volontà, lo slancio di una rigenerazione, proprio quando il buio sembra inespugnabile. Alla celeberrima fiaba la compagnia Zaches Teatro ha dedicato, al Ghirelli, l’ultimo spettacolo della propria trilogia nell’ambito di Mutaverso Teatro, la stagione a cura dell’associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Regia, drammaturgia e coreografia portano la firma di  Luana Gramegna, mentre Francesco Givone ha curato scene, luci, costumi, maschere e pupazzi; Stefano Ciardi è autore del progetto sonoro e delle musiche originali. In un sagace dialogo tra luce e tenebra, che enfatizza la condizione claustrofobica della fanciulla umiliata e offesa, mescolando le suggestioni di Basile e dei fratelli Grimm, Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Enrica Zampetti creano un equilibrio perfetto tra toni comici, grotteschi e drammatici, arricchendo le atmosfere della messinscena con ipnotici movimenti coreografici. Da buffe cornacchie, le Cinerine si trasformano in donne vestite di nero da capo a piedi, che emergono dal camino al centro della scena e si prendono cura di Cenerentola, che è una marionetta, perché così la considerano matrigna e sorellastre. Le voci di queste ultime provengono da una porta da cui s’irradia la luminosità, capovolgendo, in tal modo, l’antico assunto che associa il bene al lume. La cenere in cui vive la ragazza, l’oscuro focolare che è tutto il suo mondo sono il luogo della vitalità repressa, ma non doma, tanto che la protagonista sogna di volare su una scopa esattamente come una creatura magica, che sfugge al lucente senso dell’ordine e della gerarchia tanto caro ai prepotenti. L’elemento soprannaturale è cruciale in questa rappresentazione, perché rimanda a quello che non può essere imbrigliato dalla razionalità: il veliero in balia di una tempesta nel corso di un’eclissi e la mano che coglie un frutto per donarlo alla ragazza, creati da effetti di ombre, alludono a una maledizione lanciata al padre di Cenerentola e a un simbolo di speranza, inducendo, dunque, a riflettere sul continuo alternarsi di dissoluzione e creazione. La scatola illuminata di cui la giovane viene in possesso è un pretesto per concretizzare la metamorfosi da marionetta in donna in carne e ossa, che, nella propria danza liberatrice, prende piena coscienza di sé e delle proprie possibilità. La piccola carrozza condotta dinanzi al palazzo reale, in cui il camino si è trasformato, le ombre del principe e della fanciulla che si baciano, mentre la Danza delle Ore invita alla riscoperta del tempo abitato da nuovi pensieri, sono un tributo a un immaginario consolidato, che viene, tuttavia, fatto felicemente a pezzi. Cenerentola, infatti, si affaccia dal palazzo, lo apre e, una volta fuori, lancia la scarpa alle sue spalle ridendo e scompare oltre la platea, per realizzare finalmente la propria vita lontano da categorie e costrizioni. La vicenda si conclude con le tre cornacchie che troneggiano sul camino nella stessa posizione in cui le abbiamo viste all’inizio. Scelta naturale: il tempo è ciclico, ritorna su se stesso. Il buio resta in attesa di nuovi sogni e altre rinascite.

“Pinocchio”, la fiaba secondo Zaches Teatro

 Abbagli, trappole, testardaggini, ripensamenti: come dimostra il burattino più famoso del mondo, la vita non è certamente un giardino fiorito. E se vivere significa essere corpo tra i corpi (o anche, e soprattutto, fantasma tra gli spettri), quale luogo migliore di un palco per diventare se stessi? Spettacolo di grande forza evocativa, il “Pinocchio” della compagnia Zaches Teatro, dedicato al Maestro Nikolaj Karpov, ha aperto, presso il Ghirelli di Salerno, la Trilogia della fiaba, che ha concluso Mutaverso Teatro, il progetto curato dall’associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Luana Gramegna ha curato regia, drammaturgia e coreografia, mentre scene, luci, costumi e maschere sono stati affidati a Francesco Givone. Tra corde e un piccolo sipario, Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Enrica Zampetti, quest’ultima assistente alla drammaturgia, animano proprio su un palcoscenico dismesso le vicende del protagonista, che, come ricorda la dea ex machina Fatina, “alla scuola, si capisce, il teatro preferisce”. Proprio l’uso delle maschere agevola una serie di soluzioni espressive aperte a diverse suggestioni. Pinocchio emerge da una cassa e si muove tra acrobazie e gesti improntati a esuberanza ed egocentrismo, come, del resto, ci si aspetta da un ragazzino vivace. La Fatina, al contrario, ha movimenti che oscillano tra la danzatrice e la marionetta, restituendo l’ambiguità del suo ruolo di sorella/madre dell’eroe, ma anche di Super-Io, controllata da un preciso sistema di valori, proprio come una figura retta da fili, in cui comunque si riconosce. Il coniglio al servizio della fanciulla dai capelli turchini, che taglia lo spropositato naso di Pinocchio, è lo stesso che le porge il pezzo di legno che si trasformerà nel segno inequivocabile della menzogna, perché solo chi veglia sulle colpe altrui, attendendo che si manifestino, sa punirle davvero efficacemente. La rapacità capziosa del Gatto e della Volpe è sottolineata spesso da movimenti circolari, immagine immediata del raggiro, mentre Lucignolo non ha bisogno di comunicare all’amico le seduzioni del Paese dei Balocchi: gli basta giocare in silenzio con una palla rossa, perché il vizio si insinua come l’aria che si respira. La morbosa predilezione di Mangiafuoco per il dominio è evidente anche nel momento in cui si lamenta con la regia di non riuscire a trovare il cerchio in cui farà saltare, con la complicità di due bimbi del pubblico, il povero Pinocchio mutato in asino: i prevaricatori sono, infatti, ovunque, dentro e oltre la linea dell’immaginario. È interessante rilevare, inoltre, come Geppetto sia ricordato, cercato, invocato, ma non compaia mai in scena: un padre, in effetti, è punto di riferimento, ma anche certezza da abbandonare a poco a poco per diventare adulti. Il grande cerchio rosso che incombe sul burattino, mentre si dibatte in acque tumultuose ricreate da un grande velo in movimento, è la balena che si accinge a ingoiarlo perché sia completo il processo di degradazione, senza il quale non esiste rinascita. Nel buio in cui piomba, il protagonista dice di essere felice di aver ritrovato Geppetto: riconciliarsi con il proprio passato è il momento di un nuovo percorso. Nell’ultima scena, infatti, la Fatina pone Pinocchio nella cassa da cui è uscito all’inizio della rappresentazione, sfilandogli dolcemente la maschera. L’attrice si ridesta, osserva il volto che ha indossato così a lungo e si volta intorno con lo stupore iniziatico di chi sta venendo al mondo. Il buio che le cresce intorno è quello della possibilità, non più quello dell’angoscia. Il grande spettacolo della vita può ricominciare.