Se Molière vivesse ai nostri giorni, lo si incoraggerebbe a
dedicarsi a spot, fiction, presenze incongrue sui social, perché conta solo
vendere e vendersi. Eppure “il ragazzo brutto ma buffo, sempre con un libro in
mano”, che il grande autore è probabilmente stato, saprebbe, oggi come allora,
che “il talento è il dialogo incessante con il tuo desiderio”. Trascinante monologo in cui si mescolano
critica sociale, ironia e passione, “Molière uanmensciò (o come volete voi)” è
lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Fabrizio Falco presso il
Teatro Ghirelli con un magistrale senso del ritmo. Nel muoversi, infatti, tra
la narrazione e l’interpretazione dei personaggi che interagiscono col
protagonista, l’interprete, che ha ottenuto il Premio Ubu, trasforma il passato
in qualcosa di vivo e pulsante, terreno fertile per una consapevolezza mai
scontata del ruolo dell’artista. Chi crede, dunque, che le biografie siano qualcosa di ammuffito,
capace solo di annoiare a morte, può ricredersi: le vicende del portentoso “atleta completo del teatro” caro a
Luigi XIV hanno molto da dire anche a quello scenario spesso assurdo che è
l’Italia di oggi. Al momento di assecondare la propria passione per le scene, Molière
è costretto a scontrarsi col padre, uomo pragmatico, tappezziere di corte,
incapace di accettare una vita miserabile, condannata da santa madre Chiesa? Sono
tuttora innumerevoli i genitori decisi a piegare i figli ai propri progetti,
soprattutto nel Bel Paese, dove si è ragazzi fino a cinquant’anni. Il futuro
artefice di capolavori immortali ha sperimentato l’insuccesso e la miseria? Lo
stesso Falco inizia il suo spettacolo rivolgendosi a tratti a una sedia vuota,
dove avrebbe dovuto sedersi il musicista che non ha potuto pagare, perché chi
ama il palcoscenico trova sempre il modo di scontare questa vocazione.
Egocentrismo ed emulazione, inoltre, sono inscindibili in chi fa arte: è
Tiberio Fiorelli a insegnare al nostro eroe tutti i segreti della comicità. Più
di trecento anni prima di ogni dissertazione sulle relazioni, gli amori tossici
in Molière vedono puntualmente sconfitti gli uomini, ma nella nostra epoca così
libera non vi è ancora una seria riflessione maschile su questo tema. Aspetto
sempre ricorrente, manco a dirlo, è l’avversione per i talentuosi: dopo aver
parodiato un certo tipo di salotto con “Le preziose ridicole” e aver
conquistato il pubblico con “La scuola delle mogli”, lo scrittore deve
fronteggiare gli attori dell’Hotel du
Bourgogne, pronti a danneggiarlo in ogni modo immaginabile. Molière, tuttavia,
“non ce la fa a non essere se stesso, malgrado se stesso” e il fatto che sia
impedita la pubblica messinscena del “Tartufo”, a cui non si perdona lo
spietato ritratto di un manipolatore, non gli impedisce di dedicarsi al
libertino più affascinante di ogni tempo, il “Don Giovanni”, su cui piomba
implacabile la censura. Si giunge così al “Misantropo”, dove la passione
polverizza ogni approccio razionale alla Cartesio e che possiede “una grazia
straordinaria nella sua cupezza”. Le delusioni, gli affanni, i problemi di
salute stroncano il protagonista dopo un allestimento de “Il malato
immaginario”, ma la vera malattia è credere che il teatro sia un inutile
passatempo, quando sa essere antidoto a ogni male oscuro.
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