mercoledì 25 giugno 2025

“Molière uanmensciò”, un inno al talento in ogni tempo

 


Se Molière vivesse ai nostri giorni, lo si incoraggerebbe a dedicarsi a spot, fiction, presenze incongrue sui social, perché conta solo vendere e vendersi. Eppure “il ragazzo brutto ma buffo, sempre con un libro in mano”, che il grande autore è probabilmente stato, saprebbe, oggi come allora, che “il talento è il dialogo incessante con il tuo desiderio”.  Trascinante monologo in cui si mescolano critica sociale, ironia e passione, “Molière uanmensciò (o come volete voi)” è lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Fabrizio Falco presso il Teatro Ghirelli con un magistrale senso del ritmo. Nel muoversi, infatti, tra la narrazione e l’interpretazione dei personaggi che interagiscono col protagonista, l’interprete, che ha ottenuto il Premio Ubu, trasforma il passato in qualcosa di vivo e pulsante, terreno fertile per una consapevolezza mai scontata del ruolo dell’artista. Chi crede, dunque,  che le biografie siano qualcosa di ammuffito, capace solo di annoiare a morte, può ricredersi: le vicende del  portentoso “atleta completo del teatro” caro a Luigi XIV hanno molto da dire anche a quello scenario spesso assurdo che è l’Italia di oggi. Al momento di assecondare la propria passione per le scene, Molière è costretto a scontrarsi col padre, uomo pragmatico, tappezziere di corte, incapace di accettare una vita miserabile, condannata da santa madre Chiesa? Sono tuttora innumerevoli i genitori decisi a piegare i figli ai propri progetti, soprattutto nel Bel Paese, dove si è ragazzi fino a cinquant’anni. Il futuro artefice di capolavori immortali ha sperimentato l’insuccesso e la miseria? Lo stesso Falco inizia il suo spettacolo rivolgendosi a tratti a una sedia vuota, dove avrebbe dovuto sedersi il musicista che non ha potuto pagare, perché chi ama il palcoscenico trova sempre il modo di scontare questa vocazione. Egocentrismo ed emulazione, inoltre, sono inscindibili in chi fa arte: è Tiberio Fiorelli a insegnare al nostro eroe tutti i segreti della comicità. Più di trecento anni prima di ogni dissertazione sulle relazioni, gli amori tossici in Molière vedono puntualmente sconfitti gli uomini, ma nella nostra epoca così libera non vi è ancora una seria riflessione maschile su questo tema. Aspetto sempre ricorrente, manco a dirlo, è l’avversione per i talentuosi: dopo aver parodiato un certo tipo di salotto con “Le preziose ridicole” e aver conquistato il pubblico con “La scuola delle mogli”, lo scrittore deve fronteggiare  gli attori dell’Hotel du Bourgogne, pronti a danneggiarlo in ogni modo immaginabile. Molière, tuttavia, “non ce la fa a non essere se stesso, malgrado se stesso” e il fatto che sia impedita la pubblica messinscena del “Tartufo”, a cui non si perdona lo spietato ritratto di un manipolatore, non gli impedisce di dedicarsi al libertino più affascinante di ogni tempo, il “Don Giovanni”, su cui piomba implacabile la censura. Si giunge così al “Misantropo”, dove la passione polverizza ogni approccio razionale alla Cartesio e che possiede “una grazia straordinaria nella sua cupezza”. Le delusioni, gli affanni, i problemi di salute stroncano il protagonista dopo un allestimento de “Il malato immaginario”, ma la vera malattia è credere che il teatro sia un inutile passatempo, quando sa essere antidoto a ogni male oscuro.

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