“Ma così si veste una puttana!”, pensa Virginia Woolf,
quando la vede per la prima volta, considerandola simile a un “gatto solitario,
osservatore”. Eppure le anime in fiamme si riconoscono e l’autrice di “Gita al faro”
le proporrà di pubblicare una delle sue opere più famose, “Preludio”,
attraverso la propria casa editrice. A Katherine Mansfield è dedicato “Ho
sentito il bisogno di dirlo a qualcuno”, lo spettacolo, che ha inaugurato la
stagione del Piccolo Teatro del Giullare, di cui la protagonista Francesca Pica
cura l’elaborazione drammaturgica, mentre le musiche originali e la
drammaturgia del suono portano la firma di Carlo Roselli; l’allestimento,
invece, è di Domenico Latronico. Francesca Pica si misura con un ruolo a lei
particolarmente congeniale, perché la totale generosità e l’acuto senso del
ritmo narrativo con cui sostanzia attese, ricordi, aspirazioni di colei che
desiderava essere “quante più donne possibili” conducono a un sagace equilibrio
tra ironia e dramma, tra ansia di vivere e solitudine. Le musiche di Roselli
non rappresentano una semplice colonna sonora, ma ampliano suggestioni di gesti
e parole, dando l’impressione che il cuore della Manfield sia sempre a nudo, anche nei rari
momenti in cui esce di scena. Tra stralci di racconti, pagine di diario, eventi
riletti finalmente con gli occhi di questa scrittrice e non dei benpensanti che
non le hanno mai perdonato nulla, prende corpo una biografia emotiva, in cui il
desiderio di esprimersi senza filtri è stato pagato molto caro, perché, come
Katherine dice a se stessa, “Hai passato tutta la vita a scrivere, a
innamorarti”. La leggerezza con cui questa figura ha lasciato il segno non è
meno presente, nella pièce, della sua passionalità: per questo entra in scena
come se il vento la muovesse insieme al suo grazioso ombrellino, mentre
pronuncia i tanti nomi che ha voluto darsi nel corso degli anni (chi ha preteso
di legarla a un nome solo, cioè a un ruolo, è rimasto deluso). Il vento è
incostante, inafferrabile, tenace, proprio come questa donna, pronta a spazzare
via le comode certezze borghesi fin da giovanissima, quando il suo attaccamento
all’amica di sempre, Ida Baker, induce la madre a spedirla in Baviera “per
appetiti sessuali non conformi”. Non sono certo le costrizioni a scoraggiarla
dal tuffarsi nelle cose, che sia la cerchia di amici della Woolf o il maestoso
paesaggio dei Maori, dove risonanze profonde le resteranno sotto la pelle.
Nutrirsi della natura, sia pur trasfigurata secondo il proprio stato d’animo,
sarà infatti una costante in un percorso irregolare. Il padre può rinchiuderla
in camera quanto vuole, ma non può affievolire il primo amore per Mata,
principessa maori dal viso che emana pace, pur nelle sue “linee crudelmente
selvagge . Quando il genitore le riserva una rendita ridicola e la madre la
disereda, Katherine, sola in quella Londra che le aveva fatto tante promesse,
deve combattere con molte difficoltà: due aborti, un matrimonio riparatore di
un solo giorno, un’esistenza randagia in cui è violoncellista, attrice, artista
del circo, le nozze con John Middleton Murry, che la comprende, ma da cui lei
fugge a più riprese, perché non esiste sosta, se si vuole essere attraversate
da mille modi di vivere. Neanche la scoperta della tisi riesce a placare la
sete di appartenere al mondo, respirarlo in tutte le sue dimensioni. Solo lei può
paragonare il proprio stato e quello di un paziente del sanatorio, scossi
entrambi da un’orrenda tosse, a “due galli in falso chiarore di albe”. Non è,
però, solo il male fisico a tormentarla: il ricordo dell’amatissimo Boogie, il
fratello morto nella Prima Guerra Mondiale, la ricerca di una meta, che si
trasforma subito in una nuova partenza, la spossano non meno della malattia. È,
dunque, coerente la scelta di portare sul palco due racconti come Pictures
e Soffia il vento. Nel primo, Miss Moss si accompagna a un uomo dopo
aver cercato invano lavoro presso gli impresari, nel secondo un’infanzia felice
accorcia ogni distanza. Durezza del quotidiano e sogno hanno dominato
l’esistenza di Katherine. Non può che morire a Fontainebleau, tra gli animali,
danzando nel vento come all’inizio della messinscena: lontano da schemi,
codici, paradigmi. Il solo modo di entrare nella morte a occhi aperti.
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