mercoledì 25 giugno 2025

“Contractions”, la spietata legge del profitto

 


La trasparenza delle relazioni e la cura dei dipendenti sono alla base di un’azienda vincente. È quindi naturale che avvengano colloqui chiarificatori sull’approccio al lavoro : occorrono, infatti, garbo e tenacia per far capire che la produttività è tutto. Agghiacciante percorso dall’identità all’alienazione attraverso la pervasività del potere, “Contractions/Contrazioni” di Mike Bartlett è lo spettacolo, basato sulla traduzione di Monica Capuani, che Francesco Saponaro ha diretto presso il Teatro Ghirelli. L’allestimento si basa su pochi elementi efficaci: la manager, che appare fin dall’inizio ieratica presso la propria scrivania, è sempre in scena (Valentina Acca, che rende credibile una figura sinistra attraverso un perfetto dominio del ruolo), perché costante è la pretesa di manipolare secondo la logica del profitto. La struttura a un solo ingresso da cui entra ed esce la dipendente Emma (Federica Sandrini, che orchestra con sagacia le emozioni del personaggio) evoca l’idea di una trappola per topi, sia pur nelle sue linee asettiche, e proietta, attraverso le pareti semitrasparenti, la sua ombra, annichilendola o ingigantendola, perché chi lavora per una multinazionale e deve mirare a ottimi dati di vendita è effettivamente un fantasma, quando pretende (che sconcia perdita di tempo!) di vivere secondo le proprie regole. Tutto ciò che non sia programmabile secondo i criteri aziendali, il desiderio, in particolare, deve essere ridotto all’angolo e cancellato. Ecco allora che i quattordici incontri tra la manager e l’impiegata diventano tasselli di un assedio sempre più opprimente, in cui le domande si mutano in imposizioni e minacce. La donna al comando chiede se vi sia accordo tra Emma e i colleghi, per poi ricordarle il divieto – come da contratto- di avere in azienda una relazione sessuale o sentimentale (parola che ha implicazione legale, ricorda, e che indica qualunque atto faccia progredire il rapporto in direzione dell’amore). L’impiegata, nonostante resistenze e proteste, subisce una vera e propria colonizzazione del privato : il legame con il collega Dario è controllato in ogni dettaglio, si formulano ipotesi sulla durata della storia e gli amanti sono costretti a lasciarsi dopo sei mesi, esattamente come previsto dalla media dei dati che li riguardano, pena il licenziamento per negligenza professionale e truffa, mentre Dario è ricollocato dapprima a venti chilometri di distanza e in seguito a Kiev. Che Emma divenga, nel frattempo, madre (il congedo per maternità le viene ricordato come un rimprovero sotto il velo di un’apparente comprensione) è un ulteriore problema: finchè il figlio è in vita, come interrompere davvero una relazione parzialmente sessuale per riavere al lavoro due validissimi elementi? La morte del bambino non è, inoltre, sufficiente : non basta un semplice certificato che l’attesti, ma occorre il corpo, così che lo si possa comparare con il DNA della madre. Ormai alla deriva, quest’ultima arriva a riesumare il piccolo con le proprie mani, puntando in faccia all’interlocutrice una torcia, sperando invano di scorgervi una traccia di umanità. Né è possibile licenziarsi : il sistema ha bisogno delle proprie pedine. Poiché, in questo contesto, non è consentita neppure la disperazione, una visita psichiatrica completerà l’opera e muterà Emma in una lavoratrice brillante e felice di esistere a una dimensione. E lo spettatore non può fare a meno di pensare che la realtà sia feroce quanto questa vicenda paradossale.   

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