Provate a restare sintonizzati su un canale televisivo che
non trasmette nulla, ma diffonde il proprio ronzio nella stanza. All’inizio
potrà sembrarvi fastidioso, ma vi abituerete presto e vi sembrerà naturale che
scandisca la vostra giornata, dia il ritmo ai vostri pensieri. La cosiddetta
normalità è così: pervade le esistenze e non ci si accorge di come le faccia a
pezzi. Applaudito calorosamente dal pubblico del Piccolo Teatro del Giullare,
“Rumore bianco”, diretto da Yari Gugliucci e interpretato e scritto da Danilo
Napoli, si avvale dell’aiuto regia di Antonietta Barcellona, degli elementi di
scena di Anna Simeoli, del disegno luci di Virna Prescenzo, mentre le voci
fuori campo sono di Gennaro Ciotola e Michele Vargiu e i costumi portano la
firma del Convitto Nazionale Statale T. Tasso e Antonio Siniscalchi.
L’interprete dà prova di notevole carisma in un ruolo a dir poco disturbante,
orchestrando passione e amarezza, sarcasmo e sofferenza con un minuzioso lavoro
su ogni gesto e silenzio, per cui quello a cui si assiste è ben più di un
monologo: è una discesa lenta e inesorabile nel buio di chi ha ceduto troppo
terreno alla pressione sociale e a quei condizionamenti crudeli e subdoli che si
annidano in troppe famiglie. Lo spettacolo si basa su una serie di scelte
precise, che ampliano il fluire delle emozioni. Il pupazzo dalle fattezze
femminili su una sedia in cantina, all’inizio della rappresentazione, è
visibile prima ancora del protagonista e si rivelerà essere sua madre. Questo
tempismo è motivato: la pretesa di modellare un individuo sulla base di
convenzioni rassicuranti è preesistente alla vita stessa; si potrebbe dire che
l’attenda al varco per darla in pasto a una morale tanto più feroce quanto più
disposta a darsi il crisma della rispettabilità. Il debito verso Psyco non è disconosciuto, ma
ripensato: nel capolavoro hitchcockiano, il corpo materno è un mezzo per
scongiurare un gigantesco senso di colpa, mentre sul palco diventa il correlativo
oggettivo del vuoto involucro che sono i giorni del figlio, destinato, nella
prospettiva dei genitori, a diventare un venerando padre di famiglia, dedito a
un mortifero lavoro stabile in Comune. Il giovane è, invece, un serial killer
di donne trans per reprimere invano il proprio orientamento sessuale e, quando
ricorda la sua prima vittima, Rossella, all’anagrafe Cristiano (ma a che serve
mutare nome, se si è scelto di essere liberi?) rivive il difficile tentativo di
uscire allo scoperto tra le reazioni disgustate dei compagni con cui gioca a
calcio, le cinghiate del padre fascista (gliela aveva regalata lui, quella
cintura! A saperlo, tanto sarebbe valso acquistarla dai cinesi), la
prostituzione, un assurdo cliente che pretenderebbe di lanciargli coltelli come
in un circo, a dimostrazione di come siamo tutti oggetto di desideri
inconfessabili, la presenza al funerale paterno, ripagata da calci e pugni.
Ecco, però, che la vicenda appena raccontata è la propria: Cristiano/Rossella è
l’assassino, vessato in una setta che lo annichilisce, mentre il rumore bianco
fa da sottofondo (“Dove non arriva la scienza, arriva la fede”, afferma la
madre). Oltre al perbenismo borghese, il bersaglio colpito con ferocia è
appunto la religione : il fantomatico padre John (in realtà proveniente da
Catanzaro), perfetto esempio di ipocrisia, si sgola nel proclamarsi guarito
dall’omosessualità grazie a Cristo, ma il personaggio principale non può fare a
meno di immaginare il Salvatore con addominali da urlo nell’atto di proporre
“Ti va un po’di Inri, solo io e te?”. Vittima e carnefice nello stesso tempo,
Cristiano interiorizza fino alle estreme conseguenze la violenza subita, mentre
un televisore annuncia che il cerchio si stringe attorno all’omicida, ma la
conclusione è una pacificazione quanto mai ambigua. Desideroso di annullarsi in
quel fruscio cosmico che coprirà tutto, dato che il dolore non conosce
redenzione, fa il gesto di spararsi, per poi presentarsi in abiti femminili al
fantoccio e perdonarlo, trascinandolo in una danza, nel momento in cui una voce
gli comunica tranquillamente che è pronto in tavola. Non si tratta di uno
scampolo di vittoria. Un’armonia tra coscienza e sistema è possibile solo in
uno stadio allucinatorio, in un angolo profondo dell’anima, dove riscoprirsi al
tempo stesso figli e nuove identità. Inutile chiedere un briciolo di empatia al
pulito e ordinato mondo dei borghesi: la loro etica è simile a quel pupazzo,
inerte come i corpi su cui adora accanirsi.
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