Abbagli, trappole, testardaggini, ripensamenti:
come dimostra il burattino più famoso del mondo, la vita non è certamente un
giardino fiorito. E se vivere significa essere corpo tra i corpi (o anche, e
soprattutto, fantasma tra gli spettri), quale luogo migliore di un palco per
diventare se stessi? Spettacolo di grande forza evocativa, il “Pinocchio” della
compagnia Zaches Teatro, dedicato al Maestro Nikolaj Karpov, ha aperto, presso il Ghirelli di Salerno, la
Trilogia della fiaba, che ha concluso Mutaverso Teatro, il progetto curato
dall’associazione Ablativo di Vincenzo Albano. Luana Gramegna ha curato regia, drammaturgia e coreografia, mentre scene,
luci, costumi e maschere sono stati affidati a Francesco Givone. Tra
corde e un piccolo sipario, Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Enrica Zampetti,
quest’ultima assistente alla
drammaturgia, animano proprio su un palcoscenico dismesso le vicende del
protagonista, che, come ricorda la dea ex machina Fatina, “alla scuola, si
capisce, il teatro preferisce”. Proprio l’uso delle maschere agevola una serie
di soluzioni espressive aperte a diverse suggestioni. Pinocchio emerge da una
cassa e si muove tra acrobazie e gesti improntati a esuberanza ed egocentrismo,
come, del resto, ci si aspetta da un ragazzino vivace. La Fatina, al contrario,
ha movimenti che oscillano tra la danzatrice e la marionetta, restituendo
l’ambiguità del suo ruolo di sorella/madre dell’eroe, ma anche di Super-Io,
controllata da un preciso sistema di valori, proprio come una figura retta da
fili, in cui comunque si riconosce. Il coniglio al servizio della fanciulla dai
capelli turchini, che taglia lo spropositato naso di Pinocchio, è lo stesso che
le porge il pezzo di legno che si trasformerà nel segno inequivocabile della
menzogna, perché solo chi veglia sulle colpe altrui, attendendo che si
manifestino, sa punirle davvero efficacemente. La rapacità capziosa del Gatto e
della Volpe è sottolineata spesso da movimenti circolari, immagine immediata
del raggiro, mentre Lucignolo non ha bisogno di comunicare all’amico le
seduzioni del Paese dei Balocchi: gli basta giocare in silenzio con una palla
rossa, perché il vizio si insinua come l’aria che si respira. La morbosa
predilezione di Mangiafuoco per il dominio è evidente anche nel momento in cui
si lamenta con la regia di non riuscire a trovare il cerchio in cui farà
saltare, con la complicità di due bimbi del pubblico, il povero Pinocchio
mutato in asino: i prevaricatori sono, infatti, ovunque, dentro e oltre la
linea dell’immaginario. È interessante rilevare, inoltre, come Geppetto sia
ricordato, cercato, invocato, ma non compaia mai in scena: un padre, in
effetti, è punto di riferimento, ma anche certezza da abbandonare a poco a poco
per diventare adulti. Il grande cerchio rosso che incombe sul burattino, mentre
si dibatte in acque tumultuose ricreate da un grande velo in movimento, è la
balena che si accinge a ingoiarlo perché sia completo il processo di
degradazione, senza il quale non esiste rinascita. Nel buio in cui piomba, il
protagonista dice di essere felice di aver ritrovato Geppetto: riconciliarsi
con il proprio passato è il momento di un nuovo percorso. Nell’ultima scena,
infatti, la Fatina pone Pinocchio nella cassa da cui è uscito all’inizio della
rappresentazione, sfilandogli dolcemente la maschera. L’attrice si ridesta,
osserva il volto che ha indossato così a lungo e si volta intorno con lo
stupore iniziatico di chi sta venendo al mondo. Il buio che le cresce intorno è
quello della possibilità, non più quello dell’angoscia. Il grande spettacolo
della vita può ricominciare.
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