Una vita invidiabile tra lustrini e applausi? Per chi
osserva dalla platea, probabilmente, ma un’artista deve fare i conti con mille
problemi, tutti congegnati per mandare il buonumore a farsi benedire. Per fortuna
il canto ha una forza liberatrice in ogni circostanza. Accolto con entusiasmo
da un teatro Pasolini gremito, “Bek Steig”, lo spettacolo scritto e diretto dal
duo Ebbanesis, Viviana Cangiano e Serena Pisa alla chitarra, che si avvale
dello spazio scenico di Riccardo Citro e dell’arredamento e dei costumi di Giuseppe Barbato, vede
all’opera le due coinvolgenti interpreti in un’appassionata e giocosa
rivisitazione della musica napoletana, tramutando ogni dettaglio di un’esile
narrazione nel pretesto per addentrarsi con energia scanzonata tra brani
memorabili e divertissement. L’azione è immaginata all’interno di un camerino
che non potrebbe essere più stravagante: un busto di donna, un metronomo, un
cavallo a dondolo, valigie e vestiti eccentrici. Il correlativo oggettivo, quindi, di
un’esistenza consacrata alla scena tra esibizionismo, fanciullezza e approccio
concreto alla quotidianità. Serena, che sente addosso gli anni come se fossero
macigni, non sa rassegnarsi al fatto di avere “un viso deturpato dalla
maternità”, alludendo scherzosamente al Pirandello di “Uno, nessuno e
centomila”, quando mostra che, a seconda della prospettiva da cui si guardi il
suo naso, il suo volto appare totalmente diverso. Quel dettaglio fisico, per
cui si finge inquieta, le regalerà una cocente delusione, visto che un provino
non va a buon fine proprio perché chi l’ha esaminata desidererebbe un naso
ancora più imponente. Si dimostra, quindi, come il mondo teatrale sia
incontentabile e sempre disposto a pretendere più di quanto si possa offrire,
mentre l’infame vecchiaia avanza, togliendo smalto e leggerezza. Viviana, che
cerca con ottimismo il lato positivo di non essere una silfide, non può, a
questo punto, che coinvolgere l’amica in una versione di “Non ho l’età” tra ritmi
sempre cangianti, che oscillano dal languido alla danza vorticosa. Un mazzo di
rose arrivato in camerino, che si scoprirà provenire da un antico amore di
Viviana, dà il via a una sorta di medley in cui si spazia da “Una rosa blu” a
“T’aggia purtat na rosa” per poi concludere con la versione partenopea de “La
solitudine”, in cui il protagonista è esortato a restare solo, liberando da
ogni ossessione il cuore femminile. Si ha un bel dire, tuttavia, che il
biglietto che accompagna i fiori, consegnato da Serena nei panni del postino di
Maria de Filippi, sia opera di Chatgpt: resta comunque lo struggimento nel
leggerlo. Cosa è più melodico, in fondo, di una storia finita che priva tutto
di senso? Ma è il momento di volgersi a mete più ambiziose: sono o non sono
state le prime donne a suonare in un luogo pubblico in Arabia Saudita? Le porte
in faccia che caratterizzano il loro mestiere non devono impensierirle, perché
bisogna mettersi continuamente in gioco: cosa che avviene alla Sagra di
Giugliano, partecipando a Gigione and Friends, senza dimenticare, nella storia
da pubblicare su Instagram, di taggare la prestigiosa associazione culturale
Frienn Magnan. Il compenso promesso sottobanco dal parroco del paese,
dopotutto, è abbastanza sostanzioso da chiudere un occhio. Si ironizza, quindi,
sui compromessi a cui deve scendere chiunque voglia costruire la propria
celebrità in campo artistico: l’amore della musa passa anche attraverso vie non
proprio luminose. Una voce inquisitoria, nel frattempo, ricorda fuori campo, in
modo sgraziato, quanto manca all’andare in scena, ma c’è sempre tempo per
trasformare in salsa napoletana “Bohemian Rapsody”, per dedicarsi poi a “Billy
Jean” col grande timore di Viviana. Rimprovera, infatti, la compagna di essere
un ologramma proveniente dal passato, capace di trasformare il capolavoro di
Micheal Jackson in una villanella, ma si dà il caso che, secondo Serena, il
pezzo sia in realtà “una tarantella che non hai manco l’idea”, per cui la
riscrittura della canzone si tramuta in una parodia di grande effetto. La
contaminazione, parola molto cara a chi si è dedicato all’arte negli ultimi
tempi, porta, inoltre, a unire in un curioso e affascinante ibrido “Voc’e
notte” e “Killing me softely”. Mescolare i confini fino a disperderli è, in
effetti, tipico della cultura napoletana: le luci che vengono meno di colpo, le
porte del teatro che si sono aperte da sole all’arrivo delle due protagoniste e
la voce beffarda del capocomico sono tutti indizi di un mondo “altro” che si materializza
sul palco, il luogo di tutti gli opposti, proprio come il sogno di Viviana, che,
tramutando la realtà, immagina Serena cantare in vernacolo “Alfonsina y el mar”
di Mercedes Sosa. L’alternanza di momenti lirici e ironici obbedisce a un
attento equilibrio e la conclusione della messinscena è affidata al contatto
diretto col pubblico tra gli echi della Tamurriata nera e l’omaggio a All that
jazz. Tutto è possibile cantando: passato e presente diventano i due volti di
una piena vitalità.
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