Non bisognerebbe
mai abbassare la guardia. Il pericolo si annida nella più ordinaria delle
situazioni, come permettere l’ingresso a una signora energica e ciarliera. In
programma al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno il 28 dicembre alle 21 e il
29 alle 18.30, “Una stanza al buio” di Giuseppe Manfridi, per la regia di Angelo Ruocco, vede l’amministratore di un condominio cedere alle pressioni di
una sconosciuta in visita all’appartamento in cui si è consumato un omicidio,
come mostra la sagoma in gesso sul proscenio. Nella finta noncuranza con cui
perlustra ogni angolo, la visitatrice (Cinzia Ugatti in una delle sue
interpretazioni migliori, capace di dominare la scena a ogni passo) mette a
nudo ciò che si preferirebbe tacere, come le intemperanze sessuali della
vittima (rivelate dalle voci di Mimma Virtuoso, Brunella Caputo, Alfredo Micoloni,
autore anche delle musiche, in una videocassetta) e quel che l’uomo (un Matteo Amaturo che
tratteggia con saggezza la propria fragilità) vorrebbe tenere per
sè: le proprie velleità artistiche ridicolmente smentite dall’essere un
marmista del cimitero, il bisogno di ordine che nasconde l’esigenza di fuggire
da una vita di “soli pensieri”, il sentimento mai spento che lo legava alla
donna dell’ucciso. Il gioco di luci diVirna Prescenziobasta alla
regia per evidenziare ciò che la stanza diventa inesorabilmente: una prigione
in cui l’assedio verbale della donna costringe all’angolo l’interlocutore, fino
a renderlo strumento di un piano diabolico. La sagoma di gesso è a suo modo una
prefigurazione: in quella stanza si consuma un secondo omicidio, dato che il
protagonista sarà costretto all’estremo sacrificio di sé. La pièce celebra il
potere venefico delle parole, che si insinuano nella mente fino a soggiogarla e
a farla piombare nella rovina proprio lì, dove tutto sembrava prevedibile e
consueto.
C’è
poco da fare. “Un uomo che ti cerca e che ti pensa t’arravota sana sana”. Ma il
prezzo per avere anche solo un briciolo della sua attenzione –e quindi
esistere-può essere davvero salato. Del
tutto a suo agio con il surreale del quotidiano, Gea Martire ha strappato molti
applausi a scena aperta alla platea del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno
con “Mulignane”, lo spettacolo tratto da un racconto di Francesca Prisco e
diretto da Antonio Capuano. L’esilarante percorso da larva a bomba sexy, ovvero
da vittima delle circostanze a donna consapevole della propria forza, sa
trasformare una crudeltà sadica in occasione di divertimento grazie al carisma
dell’interprete, abilissima nel dar corpo e voce a un “brutto anatroccolo” e
agli altri personaggi che pretendono di conoscere, giudicare, colpevolizzare,
compatire, quando in realtà ne condividono fino al parossismo gli aspetti
grotteschi. Non è un caso che all’accensione delle luci, in una scena
essenziale (abiti appesi sullo sfondo, un sedile al centro del palco), appaia
di spalle in un atteggiamento dimesso, come se non importasse poi tanto
guardare il suo viso (e la sua anima), così come non è casuale che lavori in
un’agenzia pubblicitaria, dove l’apparenza è tutto e una scollatura generosa
vale più di ogni professionalità. Mica facile sopravvivere al peccato più
orrendo, la condizione di zitella. Attraverso una caustica esasperazione della
mimica (i movimenti di un robot impacciato, la difficoltà nel mettere a fuoco, il
rapporto contraddittorio con i propri desideri), la protagonista diviene
cartina di tornasole della cattiva coscienza di chi si sente perfettamente
integrato in un sistema di relazioni di cui è “indegna”: basterebbe pensare
all’ingombramte madre, finalmente cacciata di casa mentre si appropria del più
grosso dei vibratori gelosamente custoditi dalla figlia. Trasformarsi da “pietra
grezza” in “diamante” provoca l’allontanamento del brutale amante che le regala
le mulignane, ovvero i lividi, del titolo, insofferente della sua rinascita. Lo
spettatore percepisce però l’aspetto disturbante di questo trionfo. Il mondo
appartiene ai dominatori, a chi sa schiacciare gli altri sotto il proprio ego.
Che questo sia dimostrato con una vis comica fuori dal comune non toglie nulla
a un teorema inquietante. (foto di Adele Filomena)
Il primo comandamento per
chi scrive un copione teatrale? Lavorare per sottrazione, attribuendo a un
personaggio tratti riconoscibili che non lo appiattiscano. È quel che hanno
fatto a Salerno sette giovani autori del laboratorio di scrittura drammaturgica
di Francesco Silvestri, acclamato regista, scrittore e interprete. Alla Festa
delle Parole tenutasi al Piccolo Teatro del Giullare per sostenere il progetto
artistico di Vincenzo Albano, Teatrografie, in programma nel 2014, i
partecipanti hanno letto gli uni i testi degli altri, mentre Silvestri,
illustrandone le didascalie, ha guidato gli spettatori a coglierne atmosfere e
contrasti. È emersa un’attenzione al grottesco, alla fragilità, allo
straniamento. “Il giorno prima” di Brunella Caputo mostra due amanti
occasionali alla vigilia delle nozze, combattuti tra il desiderio e il bisogno
di aggrapparsi a un legame. In “6 agosto” di Angela D’Onofrio il menage di
Concetta Margetti e Claude Eatherly, che andò incontro alla follia per aver
sganciato la bomba su Hiroshima, evidenzia tutte le crepe di un falso
equilibrio borghese, divorato da frustrazioni, rancori, deliri. Maria Sole
Limodio ha invece offerto il ritratto di una Concetta abbagliata da Hollywood a
causa di uno scaltro giornalista che vuol donarle la fama col nome di Etta
Boom, senza sapere che di fatto mira a essere una merce esposta ai capricci del
pubblico.“Patologie univoche” di Elvira Buonocore contrappone la follia
dell’artista, cioè dell’uomo libero, rappresentata da William Burroughs, a quella
che pretende di farsi strumento della razionalità, incarnata da Thomas Harvey,
l’anatomopatologo che s’impossessò del cervello di Einstein. Nel testo di
Ilaria Varriano, invece, si ha un irresistibile duetto comico tra Thomas e il
cervello che si pavoneggia come una primadonna. I pochi minuti precedenti la
mezzanotte del 19 settembre1958 (che
segna l’entrata in vigore della Legge Merlin) fanno da sfondo a “Paso doble” di
Alfonso Tramontano Guerritore e a “La stanza dei miracoli”di Roberto
Pappalardo. Nel primo, la telefonata tra una moglie e una prostituta si muta da
curiosa amicizia in un cupo colpo di scena, attraverso una tensione che toglie
il respiro. Nel secondo testo di Pappalardo il prete che vuole espiare con una
donna di vita il mancato miracolo di San Gennaro, mentre questa a sua volta
ottiene l’assoluzione, mescola con felice ambiguità un casto peccato e una
purezza contaminata. Storie coinvolgenti con cui si cimenteranno gli allievi
dell’Accademia Teatrale Clarence, tenuta a Modica dallo stesso Silvestri.
(Foto:Adele Filomena).
Esistono macerie
difficili da rimuovere: le aspettative di una generazione abbandonata alle
proprie incertezze, per esempio. “Il fulmine nella terra. Irpinia 1980”, in scena oggi, 23
novembre, alle 19 presso l'Auditorium del Carcere Borbonico di Avellino, non è
soltanto la ricostruzione di una vicenda che portò alla luce inefficienze e
malafede (l’evento, a ingresso libero, è promosso dall’Associazione culturale “Orizzonti”, presieduta
dal Dirigente Scolastico del Liceo "Colletta", il professore Paolino Marotta, con il
patrocinio della Provincia di Avellino). Il testo, scritto e diretto da Mirko Di Martino e interpretato da
un appassionato Orazio Cerino, fa rivivere il clima degli anni Ottanta
attraverso articoli, testimonianze e documenti originali per evidenziare
come uno squarcio si sia aperto nel suolo e nella memoria collettiva, spazzando
via i punti di riferimento di una parte della società che vive l’enorme fatica
di interloquire con i giovani. La scelta del monologo appare del tutto
coerente: l’attore che si muove a ritroso nel tempo rappresenta non solo il
singolo che desidera riconoscersi in una collettività, ma anche il proposito di
opporre la forza delle parole a un silenzio che preferisce seppellire le ferite
invece che guarirle. Il vuoto della scena è la solitudine imposta da chi ha
voluto dimenticare esigenze materiali e spirituali ed è quel vuoto che il corpo
dell’interprete deve invadere e riempire con l’energia del linguaggio.
La nostalgia della
normalità, la coscienza di come i sogni possano naufragare, le trappole della
diversità sono al centro di “Effetto C.C.- Il topolino Crick”, lo spettacolo
scritto, diretto e interpretato da Francesco Silvestri (nella foto di Adele
Filomena)che sarà proposto in video proiezione, alla presenza dell’autore, il 14
novembre alle 21 presso il Piccolo Teatro del Giullare. L’iniziativa, che
prevede un contributo volontario di 5 euro, nasce dalla collaborazione tra la
struttura di Via Incagliati e l’associazione culturale Erre Teatro, in vista
del sostegno a Teatrografie, il progetto ideato e diretto da Vincenzo Albano.
Silvestri, tra i più affascinanti artisti della scena italiana (suo il Premio
Ubu come miglior attore nella versione di “Sabato Domenica e Lunedì diretta nel
2002 da Toni Servillo), debuttò con quest’opera il 22 aprile 1987, riscuotendo
un grande successo di pubblico e critica. Un chirurgo e uno psicoterapeuta si
servono di Antonio Cafiero, un ritardato mentale, per un audace esperimento:
aumentare notevolmente il quoziente intellettivo attraverso un’operazione, la
stessa sorte toccata alla cavia Crick. Antonio è consumato dal desiderio di
essere accettato e amato: non vuole più patire la solitudine di chi viene
considerato sbagliato, fuori posto. Ma l’intelligenza è un dono avvelenato. È
proprio l’animale a dimostrarlo per primo, assumendo un comportamento che
oscilla tra aggressività e prostrazione. La durata dell’esperimento è limitata:
l’uomo è destinato a regredire di nuovo, a perdere quella occasione di felicità
che gli era stata prospettata come un saldo punto di approdo. Ecco allora che
l’andirivieni della mente tra passato e futuro, la freddezza degli specialisti,
la consapevolezza dell’esistenza come una prigione costellata da inganni fanno
di “Effetto C.C” uno dei copioni più dolorosi e coinvolgenti su quella
condizione inaggirabile che è la fragilità. La logica mostra incongruenze ed
errori, la follia disarma nella sua innocenza, nella sua incapacità di filtrare
le emozioni e addomesticarle. Lo stesso scrittore e attore racconta il suo
rapporto con questa pièce che chiede moltissimo al suo interprete in “E poi
sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri”, la monografia
che Albano gli ha dedicato: “Ricordo di non aver quasi mai provato il finale
perché mi metteva di fronte ad una commozione che non riuscivo a trattenere.
All’interno del testo ci sono delle cose che mi appartengono, che riguardano la
mia infanzia. Parlarne mi fa battere il cuore.”.
Spaziare da Fellini a Gigi D’Alessio strizzando
l’occhio al trio Lescano e a una Wanda Osiris en travesti? Tutto è possibile
quando a farla da padrone è uno spudorato senso del gioco. Nell’applaudito
“Servo per due”, applaudito al Teatro Verdi di Salerno,
Pierfrancesco Favino, protagonista e regista con Paolo Sassanelli, rende
omaggio alla Commedia dell’Arte, esaltando tutte le potenzialità espressive del
corpo dell’attore, che si fa saltimbanco, mimo, tenero innamorato, burattino
pasticcione, inno vivente alla voracità. Nell’adattamento di “One man, two
guvnors” di Richard Bean (ispirato all’”Arlecchino” goldoniano) che lo ha
impegnato con Marit Nissen e Simonetta Solder, oltre allo stesso Sassanelli,
l’interprete è Pippo (nomen omen, data la sua capacità di agire puntualmente in
modo illogico) che nella Rimini del 1936 deve destraggiarsi tra due padroni che
si scopriranno essere due fidanzati sotto mentite spoglie. La trama è però solo
un pretesto che asseconda la dimensione totalizzante dello spettacolo,
l’allegra celebrazione della finzione che, anche e soprattutto nel
coinvolgimento degli spettatori, esalta il carattere fittizio di tutto quel che
si muove in scena. Ecco allora che la nave di “Amarcord” o l’intonare una
canzone di D’Alessio con tanto di illuminazione da discoteca rientrano in una
dimensione circense paga di se stessa. Il repertorio di inseguimenti,
travestimenti, doppi sensi, porte sbattute in faccia con la precisione di una
partitura non conosce un attimo di cedimento grazie al cast del Gruppo Danny
Rose che ispira la sua recitazione al jazz, dove l’unità non può fare a meno di
forze all’apparenza centrifughe. E poiché l’unico comandamento è divertire, i
pezzi forti dell’epoca, come “Maramao” o “Baciami piccina”, ironicamente interpretati
dal gruppo Musica da ripostiglio, come le coreografie che scandiscono la
narrazione, non sono semplice omaggio al passato, ma bisogno di riscoprire la
leggerezza del varietà.
Sarà presentato l’8 novembre alle ore 19.00 presso il Teatro Nuovo
di Napoli e il 9 novembre presso la
Chiesa di Sant’Apollonia di Salerno, sempre alle 19, il
volume di Vincenzo Albano “E poi sono morto. La drammaturgia non postuma di
Francesco Silvestri”, a cura del Centro Studi sul teatro napoletano,
meridionale ed europeo, coordinato dalla Professoressa Antonia Lezza.
All’appuntamento napoletano saranno presenti, oltre l’autore e lo stesso
Silvestri, Antonia Lezza, Giulio Baffi, Carlo Cerciello, Enzo Moscato, Giovanni
Petrone. Gli interventi saranno moderati da Rosalba Ruggeri. La serata presso
Sant’Apollonia vedrà invece gli interventidi Pasquale De Cristofaro e Luciana Libero, oltre che della
Professoressa Lezza e di Silvestri, moderati da Gemma Criscuoli. Successive
presentazioni si terranno inoltre il 13 novembre alle ore 20.30 al Teatro
Civico14 di Caserta e il 21 novembre ad Avellino, alle ore 19.00, in
collaborazione con l’associazione culturale Vernice fresca, negli spazi della
libreria “Angolo delle storie”. È prevista una tappa siciliana, a Modica, il 14
dicembre, in collaborazione con Atp Clarence, presso la Ex chiesa di SS. Nicolò ed
Erasmo. Nell’intento di colmare una vistosa lacuna della critica su uno degli
artisti più versatili che la scena italiana abbia finora proposto, nel suo
libro Albano, che gli aveva dedicato la prima edizione della manifestazione
Teatrografie, entra nell’immaginario di Silvestri attraverso un appassionato
studio dei suoi testi che permette allo specialista come al lettore comune di
coglierne affinità e peculiarità. Ogni copione rivela a suo modo la versatilità
espressiva che rende feconda la lingua dell’autore, che spazia con la stessa
freschezza dal dialetto più aggressivo al registro più sofisticato, e in tutti
si coglie una marginalità intesa come redde rationem di forze in contrasto e
luogo in cui coltivare un’impossibile felicità.
Avrà inoltre
luogo il 14 novembre alle 21, presso il Piccolo Teatro del Giullare, la video
proiezione inedita di uno dei più acclamati successi nazionali di Silvestri, “Effetto
C.C. Il topolino Crick”, a cura dell’associazione culturale Erre Teatro con un
libero contributo d’ingresso di 5,00 euro. Erre Teatro promuove tra l’altro a
Salerno il workshop intensivo di scrittura drammaturgica “Nuovi testi per una
nuova scena”, a cura del regista di “Fratellini”, dall’11 al 20 novembre 2013
(ore 16.00 - 20.00), negli spazi di “Botteghelle65/salumeria storica”, in via –
appunto – Botteghelle n.65. Info, prenotazioni e modalità di iscrizione su erreteatro.info@gmail.com.
Un’equilibrista del
linguaggio, un’esploratrice del significato capace di trasformare vocaboli e
forme in occasione di gioco, denuncia, smascheramento graffiante. Ribaltando
gli stereotipi che si fossilizzano (ieri come oggi) in una netta distinzione
tra maschile e femminile, Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, ha
sempre fatto dell’arte un momento di confronto e di rottura di ipocriti
equilibri. In omaggio a una coerenza capace di rinnovarsi continuamente, l'Accademia di Belle Arti di Macerata le
assegnerà il 24 ottobre alle 10.30 nell’Aula Svoboda la Laurea Honoris Causa nel corso di una giornata che vede
la collaborazione con la Fondazione Filiberto Menna di Salerno, il Dispac /
Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell'Università degli
Studi di Salerno e la
Fondazione Carime.
La mostra “Tomaso Binga. Scritture Viventi”, curata da Antonello Tolve e
Stefania Zuliani, sarà inaugurata nel giorno del prestigioso conferimento e
sarà visitabile fino al 24 novembre presso la Galleria Galeotti
in Piazza Vittorio Veneto 7, dove è prevista alle 18.30 la performance a cura
di Pierfrancesco Giannangeli “Con 40°
all'ombra e 98° di umidità”: qui l’ambiguità della lingua diviene sagace
prospettiva conoscitiva. La tematica femnminista, particolarmente cara a questa
amante del futurismo e dell’innovazione espressiva, ha rappresentato un motivo
conduttore per la necessità di sottolineare la forza benevolmente eversiva
della differenza. La ricerca sulla voce, sul gesto, sul corpo, aspetti diversi
della medesima energia, ha condotto Binga a una militanza artistica che è
dialogo con l’assurdo, cifra inaggirabile del vivere, e incitamento a non
lasciarsi irretire dalle trappole di un’anestesa percettiva. La sensazione,
madre della conoscenza, è facilmente schiacciata da un’omologazione che pervade
la quotidianità sotto ogni punto di vista e di fatto la priva di senso, mentre
proprio ad essa l’artista vuole resituire l’attitudine a ridisegnare confini e
concezioni. Di qui l’importanza della condivisione e del coinvolgimento degli
spettatori nelle performance di Binga, che ha sempre visto in chi dà corpo
all’arte un mezzo per approdare a una consapevolezza più profonda. È lei stessa
a descrivere il suo lavoro: “Ironiaegrottesco,denunciaedissacrazione,nonsenseeluogocomuneeilsonoropiùstereotipatodelmondotecnologicosonostatigliingredientiprincipalidellemiepoesieperformativeche,conlapoesiasonora,sisonoarricchitedellaenergiacorporeanecessariaastabilireuntramitepiùdirettotrailtestoeilfruitore”.
La
vita è sogno, dicono i poeti. Ma un sogno oscuro, contraddittorio, da cui è
impossibile evadere. Nel suo allestimento de Le voci di dentro, l’opera più crudele dell’amato Eduardo in scena
fino al 20 ottobre al Teatro Verdi di Salerno, Toni Servillo, regista e
interprete, si mostra particolarmente attento alla dimensione onirica del testo
che contribuisce a rendere indecifrabile un qualsiasi punto di riferimento. Le
scene di Lino Fiorito prediligono una
nudità evocativa in cui far muovere il cast (Chiara Baffi,Betti Pedrazzi, Marcello Romolo, Gigio Morra,
Lucia Mandarini, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Antonello Cossia,
Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli, Francesco Paglino, su
cui primeggia Peppe Servillo, un Carlo Saporito credibilissimo nel suo viscido
egoismo): il primo atto presenta solo ciò che è strettamente funzionale al
racconto, una credenza e un tavolo con delle sedie, per porre in maggiore
risalto, con la luce tendente all’opaco di Cesare Accetta, gli ambigui
comportamenti dei personaggi. Il divisorio che nel secondo atto separa dal
proscenio la soffitta di Zi’Nicola (che nella sua muta saggezza al vetriolo non
potrebbe che guardare tutto dall’alto) e il gioco di chiaroscuri rendono sempre
più sfuggenti gli interlocutori di Alberto, il cui isolamento spirituale è
tanto più evidente quanto più le altre figure lo incalzano. Nella luce
abbagliante della conclusione, quando le macerie dell’etica sono più chiare del
sole, il protagonistasi slancia verso
l’ingresso buio della sua casa nel tentativo di interpretare il segnale
rivelatore che ha udito (o si è illuso di udire) da parte dello zio ormai
defunto, come a rintracciare nell’inconscio, dove tutto ha avuto inizio con il
sogno mostruoso, un’impossibile risposta alla logica malata degi uomini. E
quando Carlo si addormenta nella medesima posizione della cameriera di casa
Cimmaruta all’inizio sotto gli occhi smarriti di Alberto, non resta che
contemplare l’amara verità: la comprensione e la giustizia sono più evanescenti
di un sogno, proprio come chi le desidera disperatamente.
Davvero
irritante trovarsi di colpo fuori casa. Soprattutto se ci si accorge di essere
esclusi da tutta una concezione del vivere. In scena al Teatro Ghirelli di
Salerno fino al 20 ottobre, Renato Carpentieri è regista e interprete con Valeria Luchetti e Stefano Patti di “Fuori”, lo
spettacolo prodotto da Fondazione Salerno Contemporanea Teatro Stabile di
Innovazione tratto dal romanzo di Vincent Delecroix À la porte. Al centro della vicenda, l’irrimediabile solitudine di
chi non può e non vuole riconoscersi in un contesto immiserito dalla superbia e
dalla vacuità. Quando uno studente chiude distrattamente la porta della sua
abitazione, un professore di filosofia impegnato in un articolo sul Fedone, dove non a caso l’ansia di
liberarsi dalla bieca materialità è particolarmente viva, si abbandona ai suoi
pensieri in un contesto urbano ricostruito con pochissimi elementi: tre
ingressi, il tavolino di un bar, un manifesto strappato. L’essenzialità della
scenografia isola ancora di più il protagonista in un’omologazione che toglie
riconoscibilità a luoghi e persone: la cameriera che, cambiando parrucca, muta
anche l’atteggiamento nei confronti del professore, allude a una visione della
vita come scambio di maschere incongrue. In un mondo che pullula di geni morti e
viventi pur annegando in una spaventosa ignoranza, che obbedisce al calcolo,
all’ipocrisia, alla moda, il dialogo con chi non c’è più sembra offrire un
minimo di conforto, subito spento (il rumore insopportabile che impedisce al
professore di udire il fantasma di suo padre, la figlia morta che potrebbe
incarnare la filososfia stessa, amata sopra ogni cosa). Non c’è da stupirsi se
quadri splendidi appaiono dietro la porta di un bagno: l’Arte, medicina
dell’anima, ormai lontana da occhi incapaci di coglierne la forza, rifugge le
morte strutture che fingono di ossequiarla (i musei) e si apre,
inaspettatamente, oltre le convenzioni, a chi sa desiderarla. È la bellezza
l’unico antidoto al morbo di una civiltà crudelmente ottusa. Gli infermieri che
sbarrano la strada al docente, impedendogli il ritorno nella sua casa, sono
emblema di una visione borghese che non perdona la differenza. L’uomo porrà
dinanzi al volto un ritratto di Van Dick, mentre i fantasmi dei genitori lo
contemplano da lontano, come ad attenderlo: una morte che vuole essere una
rinascita, fuori da una società che è a sua volta già morta senza saperlo.
Frasi vuote e gesti che ostentano normalità
sullo sfondo di un deserto. Un’immobilità fisica e psichica che non è poi così
diversa dallo strisciare senza avanzare di fatto di un millimetro. La vita
borghese è un inferno in cui non si sfugge a se stessi in “Giorni felici” di Samuel
Beckett, che Andrea Renzi dirigerà fino al 13 ottobre presso il Teatro Ghirelli
di Salerno. Affiancata da un intenso Roberto De Francesco che sa rendere
concreta l’oppressione della presenza come dell’assenza, Nicoletta Braschi gioca
la sua interpetazione sui toni carezzevoli e melensi della donna perfettamente
integrata in un contesto sociale mentre è sepolta fino alla vita tra i massi (ma
ciò che la imprigiona potrebbe far pensare alle fortificazioni di una trincea:
dopotutto quella che si combatte è una guerra contro la logica e l’equilibrio).
Il paravento che riproduce in modo stilizzato uno scenario perso tra sabbia e
nuvole, dietro cui il marito della protagonista si rintana muovendosi carponi, rispondendole
a monosillabi o con frasi lette da un giornale, contribuisce a rendere irreale un
contesto in cui un tempo pietrificato è scandito dal suono di una sveglia e
dagli sguardi di chi ha un disperato bisogno di riempire di parole il suo
nulla. La borsa da cui sono tratti spazzola, pettine, cappellino e tutto quel
che si addice a una figura rispettabile allude a una vita legittimata dal
possesso, ma avvelenata da una tendenza ad autodistruggersi, come mostra il
racconto della bimba che possiede una bellissima bambola ma è assalita da un
topo e la pistola che la
Braschi posiziona davanti a sè .Frammenti di versi, ricordi,
tendenza a concentrarsi su particolari all’apparenza irrilevanti come una
formica, che è, lei sì, viva, rinviano a uno spaesamento dell’anima,
all’impossibilità di riconoscersi e di rintracciare un significato nel
protrarsi delle ore. “E’ questo che trovo meraviglioso” ripete Winnie nel
tentativo di esorcizzare il malessere rincorrendo il miraggio della
felicità.Anche la coppia curiosa e
polemica che la donna ricorda non è che immagine della propria condizione di
solitudine e naufragio. Willie e Winnie, speculari nella loro deriva, non
possono che celebrare una sorta di rito di congedo quando quest’ultima, sepolta
fino al collo, lo vede avanzare verso di lei con un abito da cerimonia, mentre
lei intona “La vedova allegra”, come a voler ricordare, se è esisito, il
momento felice in cui un contatto umano poteva ancora contare qualcosa.
“Che
dolcezza vivere ed essere felici!”, ma il sorriso diventa una smorfia amara
sulle sue labbra. La Nora
di Ibsen è una delle figure più complesse della drammaturgia nella sua fragilità
e la Compagnia
dell’Eclissi offrirà un convincente allestimento di “Casa di bambola” il 12 e
13 ottobre presso il Teatro 99 Posti di Mercogliano. Col suo volto mobilissimo
e la sua passione, Marianna Esposito è il vero fulcro della scena, la figura
che fa emergere sensazioni e limiti di chi l’attornia anche quando è lontana.
Il regista Uto Zhali opta per una leggibilità che non impoverisce il copione.
Due immagini fotografiche appese alla parete alludono a ciò che si chiede a una
donna in un asfittico contesto borghese. In una, un corpo femminile nudo si
ripiega su se stesso senza che se ne possa scorgere il volto: la sensualità di
chi è desiderata, ma non ha il diritto di desiderare. In un’altra, una signora
che sembra uscita da una stampa dell’Ottocento spinge lontano lo sguardo: è
evidente la compostezza e l’equilibrio della mater familias. L’arredamento
ridotto all’essenziale (un tavolino, tre divani), rimanda alla provvisorietà
della moglie di Torvald (un efficace Ernesto Fava, disposto a misurarsi con
tutti i toni della crudeltà), pronta a improvvisare una performance a seconda
dei desideri del marito, senza essere nulla per se stessa. Il furioso
ondeggiare del suo corpo alla fine del primo atto che la lascia prostrata al
suolo è metafora dell’oscillare tra forze contrastanti che la imprigionano. In
questo dramma del possesso in cui bisogna avere per essere, la protagonista
tenta di esorcizzare il suo destino di oggetto senz’anima rincorrendo la
prosperità. Mentre Kristine (Viola Di Caprio) sa, per averlo sperimentato, che
è assai facile essere in vendita, Nora si crede sostegno di un contesto
familiare che la fagocita, divenendo vittima e carnefice delle proprie
illusioni. I due ruoli si mescolano nel misurato Felice Avella, che incarna il
destino sempre pronto a far saldare i conti in sospeso. Non a caso si giunge
alla verità attraverso la menzogna (la donna ha falsificato la firma su di
un’obbligazione) che è ben gradita alla borghesia, finchè non ne comprometta i
piani. Da questo gioco di maschere si esce attraverso la morte fisica (un
dolente Roberto Lombardi) o sociale (Nora abbandona tutto e tutti e si dirige
verso la luce dorata sul fondo che è la vita vera ed è l’unica a imboccare
quella via). Meglio essere privi di certezze che della propria identità.
La
tensione irrisolta si percepisce fin dall’inizio, nell’andirivieni nervoso dei
personaggi che, come sorpresi da uno sguardo indiscreto, spariscono dietro il
sipario, mentre fumo e luce disegnano un’atmosfera irreale. Nell’allestimento
de “Gli altri fantasmi” di Maurizio De Giovanni, per la rega di Brunella
Caputo, in programma al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno fino al 27
ottobre, la morte che non si rassegna a essere archiviata e la vita che si scopre
fragile si scambiano continuamente le parti, fino ad annullare la distanza tra
chi resta e chi è solo all’apparenza scomparso. Ciò che sta particolarmente a
cuore al cast (Cinzia Ugatti, Caterina Micoloni, Augusto Landi, Michele Landi,
Rocco Giannattasio, Mimma Virtuoso, Teresa Di Florio, Andrea Bloise) è
restituire credibilità alle anime sul palco: una ragazza che vive tra degrado e
violenza, mentre lo spirito della madre conduce a morte il padre abbrutito, un
uomo costretto da un cieco a ricordare il proprio suicidio per la morte
dell’amatissimo figlioletto, marito e moglie che, anche dopo essersi uccisi a
vicenda, continuano a nutrire il proprio rancore nella casa oggetto delle loro
mire borghesi. Le musiche e le coreografie
di Virna Prescenzo creano un clima di attesa che non si apre mai a una vera
pacificazione dei protagonisti, mentre la scenografia di Michele Paolillo,
giocata su pannelli che evidenziano la dimensione onirica di Napoli o
ingigantiscono oggetti, conducono subito lo spettatore nell’esasperata
soggettività di queste figure che solo narrando fino allo sfinimento possono
intravedere –ma mai cogliere- una tregua dalle passioni che le hanno
condizionate. Il racconto riapre ferite, porta a galla motivazioni nascoste,
permette a un sentimento di rifiorire: è la dimensione in cui vita e morte
possono riconoscersi, sapendo che l’una non potrà mai sussistere senza l’altra.
E le frasi che tornano a echeggiare nel finale esprimono il bisogno lancinante
di protrarre l’inganno dell’esistenza e i suoi sogni che non vogliono
scomparire.
“Se
non c’è un elemento dissonante e visionario nei miei testi, non riesco a
riconoscermi, è come se non mi appartenessero”. Oscilla tra il sogno –fragile
difesa contro la sofferenza- e la disarmonia –ciò che incrina e sfalda la
cosiddetta normalità-il percorso
dell’attore, scrittore e regista Francesco Silvestri che Vincenzo Albano,
fondatore dell’associazione culturale Erre Teatro, ricostruisce e analizza in “…E
poi sono morto. La drammaturgia non postuma di Francesco Silvestri” (Libreria
Dante & Descartes). Il volume, corredato dalla introduzione del giornalista
e critico teatrale Paolo Petroni e dalla postfazione di Antonia Lezza, docente
di Letteratura Italiana e Letteratura Teatrale Italiana dell’Università di
Salerno, fa parte della collana di Quaderni sul Teatro dell’Associazione Centro
Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale ed Europeo. Albano, che ha dedicato
all’artista la prima edizione a Salerno di Teatrografie, prende le mosse da
“Piume”, finalista nel 2001 al Premio Ater Riccione e qui pubblicato per la
prima volta, ultimo testo di Silvestri da ogni punto di vista, poichè
rappresenta la summa del suo mondo drammaturgico. Se, come dice Bontempelli,
“pubblicare è come seppellire”, visto che la scrittura è un dato definitivo a
meno che l’autore non scompagini le carte, in quell’ambiguo teorema della
mancanza che è “Piume” lo scrittore ha proiettato le proprie tensioni in modo
così assoluto e profondo da non potersi spingere oltre, sancendo, per così
dire, la propria morte, ovvero il proprio silenzio. Interrogando questa
assenza, Albano entra nell’immaginario di Silvestri attraverso un appassionato
studio dei suoi testi che permette allo specialista come al lettore comune di
coglierne affinità e peculiarità. Ogni copione rivela a suo modo la versatilità
espressiva che rende feconda la lingua dell’autore, che spazia con la stessa
freschezza dal dialetto più aggressivo al registro più sofisticato, e in tutti
si coglie una marginalità intesa come redde rationem di forze in contrasto e
luogo in cui coltivare un’impossibile felicità. La donna di “Mon enfant” che
crea un dialogo fittizio col suo amante assente, Edoardo e Antonio che in “Saro
e la rosa” tramano per avere un figlio proprio, la “stoltezza patentata” del
protagonista ne “La guerra di Martin” che illumina l’idiozia autentica delle
armi, l’amoroso Gildo che veglia sul fratello, entrambi fuori posto perché
l’uno è ritardato e l’altro malato di aids in “Fratellini”, sono tutte immagini
di un’incompletezza che non si rassegna, malgrado tutto, a non desiderare
quella pace che resta un’illusione.
Guardarlo
con sospetto o ammirazione era naturale. Nessuno aveva desiderato con tanta intensità
un radicale cambiamento dell’anima, nessuno gli era alla pari nel carisma. Il
santo d’Assisi rivive in tutta la sua forza destabilizzante in “Francesco”, lo
spettacolo, che vede Alessandro Sparacino nella duplice veste di regista e
interprete al fianco di Alessandro Romano, Adriano Gurrieri, Giada Lasagna
Liuzzo e Francesco Silvestri, in programma il 4 e 5 ottobre alle 21 presso la Chiesa di San Niccolò a
Modica, sede dell’Accademia Teatrale Clarence. Mentre la voce fuori campo di
Giorgio Sparacino introduce il pubblico al mondo dei Fioretti e tre artisti di
strada ricostruiscono il percorso di questo outsider della fede, il regista,
sulla base di testimonianze spesso trascurate dalla cultura ufficiale, sceglie un approccio anticonvenzionale per
raccontare l’amore per la vita in un uomo restituito alle sue fragilità e
debolezze. Non è il ritratto agiografico a prendere forma, ma un Francesco
esposto alla sofferenza e all’errore, mosso da una passione che lo porterà a
fare del teatro la dimensione privilegiata per diffondere il suo messaggio di
fratellanza. Un omaggio a una figura chiave del mondo medievale e alla capacità
del palcoscenico di rendere tutto possibile.
La figura velata,
una luna antropomorfa, (il raffinato Luciano Dell'Aglio) accende lentamente le piccole luci
sulla scena e i personaggi iniziano ad assumere i propri gesti consueti, pronti
a creare per l’ennesima volta a suo beneficio un dramma che li inchioda a una
casa che ha “troppe stanze vuote e pensieri vacanti”.“Il sogno dei felici”, che Antonio Grimaldi
ha diretto presso la Chiesa
di Sant’Apollonia di Salerno, si basa su di un assunto chiarissimo: la follia è
l’unico rifugio di un’anima assetata di letizia e la solitudine che nasce dai
sogni spezzati spinge a una lotta tanto violenta quanto inutile. I figli
dementi che regalano la propria illogica allegria (Cristina Milito Pagliara e
Massimo Villani, in un’interpretazione di profonda intensità) vogliono
costruire un petardo che faccia esplodere tutto, esprimendo inconsapevolmente
la situazione in cui vivono, dove tutti gli equilibri –ammesso che siano mai
esistiti-sono saltati. Badoglio, l’uomo cane che dovrebbe essere una sorta di nume
tutelare della casa e che ne riflette invece l’inquietudine irrisolta in
un’aggressività che lo rende dolorosamente umano (un Alfonso Tramontano
Guerritore attentissimo al suo ruolo e autore dei testi insieme alla generosa
Elvira Buonocore, che impersona la madre), nutre un rapporto di amore e odio
verso la luna (“Tu sei la corda che attende l’impiccato” le urla), perché non
le perdona la sua distanza, il ribadire la segregazione di queste vite
interrotte attraverso la sua imperturbabilità. Alessandro Gioia impersona il
padre e ogni suo atto racconta con spudorata sincerità il peso di una vita che
non ha più la forza di difendere i propri ideali, la madre, che ha il nome
antifrastico di Gioia, vorrebbe essere pura e perfetta come la Vergine, perché nessuna
felicità può rassegnarsi ad annegare nel nulla. E quando le figure si avventano
le une contro le altre, lei si accanisce anche contro se stessa per non aver
saputo a sua volta difendere ciò che dava un senso all’esistenza. Eppure
neanche la volta celeste può fare a meno di una terra che si macera nel
rimpianto e nell’ansia di rinascere. Alla fine dello spettacolo, la luna si
accosta al nucleo familiare, come ad attendere a sua volta un motivo per
vivere. Del resto, “Chi ci pensa alla solitudine folle di chi sta sempre in
cielo?”.
Il passato è una terra straniera? Dovrete
ricredervi se assisterete alla performance di Saverio La Ruina
in “La borto”. Lo spettacolo, prodotto da Scena Verticale, chiuderà sabato 21 settembre alle 21 al Castello
Fienga di Nocera Inferiore la rassegna Centrale dell’Arte promossa dal Teatro
Grimaldello. Sono inoltre previste la mostra di Salvatore Illegittimo,
Bonaventura Giordano, Renata Frana e la messinscena di “Esercito d’amore”
(regia di Antonio Grimaldi, testi di Alfonso Tramontano Guerritore), tentativo
di opporre il desiderio a qualunque forma di dissoluzione. Diventa impossibile
relegare in tempi lontani il Sud chiuso a chiave nella propria minacciosa
immobilità fisica e psicologica che La
Ruina restituisce nel ritmo del dialetto calabro. Nella sua
lenta musicalità, il racconto si insinua, diventa familiare e ci si scopre
vicini alla donna che l’attore interpreta senza alcun trucco: non potrebbe
essere diversamente, perché nel mondo narrato un’idea femminile del vivere non
ha diritto a concretizzarsi in un corpo autonomo. Dove la prospettiva maschile
è totalizzante, la protagonista e le sue compagne non sono che vittime di una
maternità che non è apertura alla vita, ma esasperazione di una condizione claustrofobica.Ecco allora che l’aborto non è vissuto come
gesto d’odio, ma tentativo sofferto di vivere un’esistenza secondo una volontà
che non sia quella del padrone di turno. Perfino Cristo dovrà perdonare questa
peccatrice. E il dolore che si rinnova in un racconto a tratti perfino ironico
testimonia le ferite profonde inflitte da chi si preoccupa di colpire, ma non
di capire
In
uno schieramento serrato, sposi e spose avanzano lentamente, la mano sul cuore,
verso un’invisibile linea del fuoco, per poi disperdersi, teneri e sospesi,
sulle note di “Besame mucho”. Elogio del romanticismo? Niente di più sbagliato.
È una lotta senza quartiere “Esercito d’amore”, che il regista Antonio Grimaldi
ha proposto all’arena Ghirelli di Salerno nell’ambito della rassegna “La
fornace del Teatro”. Nella performance dedicata “alle vene e alle ossa del
corpo, a Pina Bausch e a Marta Graham”, gli interpreti rappresentano l’elemento
perturbatore, la forza che ha intima necessità di sprigionarsi attraverso un
coinvolgimento totale dell’anima e del corpo. Prendono possesso della scena
attraverso un linguaggio che esprime consacrazione (i gesti che mimano il testo
di “The man i love”) e rottura (lo schiaffo a uno sposo che sembra riverberarsi
su tutti gli altri), per far confluire in se stessi gli opposti e farli
esplodere, divendeno così rifugio e via di fuga di tutte le tensioni possibili.
Il corale protendersi verso gli spettatori, direttamente convolti nella danza o
anche solo abbracciati come compagni di viaggio, il bisogno di assediare lo
spazio come a ricordare che non esiste nulla di definitivo, se non l’eterna
tensione verso l’altrove, spingono gli sposi a fare dolce violenza a una
percezione assopita. I testi di Alfonso Tramontano Guerritore, che figura anche
tra gli attori, raccontano l’anarchia del desiderio (“Questo è il sangue…Era
nei baci e sarà ovunque nei pensieri”) che è tentativo ostinato di forzare atti
e coscienze, di aprire nuove possibilità. Ecco allora che morte e vita
diventano i due momenti dello stesso percorso, come mostra la resurrezione dei
due sposi coperti di terra e acqua che si destano felici, come a prendersi
gioco del concetto stesso di fine. Non esiste tuttavia desiderio che abbia la
strada spianata: i protagonisti sono raggelati dal suono di una sirena,
bloccati da una forza che impedisce loro di avanzare, costretti a muoversi in
un insensato andirivieni cme se un carcere invisibile li avesse di colpo
inghiottiti e spinti disperatamente gli uni nelle braccia degli altri. La scena
(cioè il mondo) non si lascia conquistare facilmente da una libertà così
accecante. E quando si ammassano prostrati, all’apparenza sconfitti, gli sposi
sanno, malgrado tutto, che l’unica fede è nei loro corpi così impudicamente
innocenti, pronti sempre a divenire, ma non a essere.
È il re dei generi, perché li ingloba tutti.
Ha regole ferree e infinite diramazioni. Ama trasgredire la sua riconoscibilità
narrativa. Il noir sa creare nel pubblico le giuste attese per poi farlo
ritrovare in un vicolo cieco e a questa forma artistica Teatrazione Teatro ha
dedicato l’omonimo concerto-spettacolo ad apertura della rassegna “La fornace
del Teatro” presso l’arena Ghirelli di Salerno. La messinscena, che coinvolge
Adriano Galdi (live electronics) e Goelga (vjing), si basa su scelte che a prima
vista sorprendono. Le proiezioni sempre cangianti e al tempo stesso percorse da
motivi ricorrenti che aprono e chiudono la performance (fome circolari,
prismatiche, effetti ottici presentati da diverse angolazioni e ossessivamente
riproposti, quasi una geometria dell’impossibile alla ricerca di una propria
logica) alludono alla peculiarità del noir: la fluidità del suo statuto
espressivo, il suo carattere labirintico che rende estraneo ciò che era apparso
un attimo prima familiare. La vicenda si dipana attraverso cinque capitoli con
tanto di prologo su Caino e Abele (Il killer, La gran figa francese, il
tassista indiano, L’uomo degli incarichi, Victor Sanchez) e Igor Canto, con la
perfetta impassibilità degli assassini di Melville, deve eliminare su commissione
di un losco individuo un personaggio che si scoprirà legato alla donna che lo
ha tradito. Gli ingredienti del filone ci sono tutti (l’inganno dell’amore, la
suspense, il senso delle cose perdute, la sostanziale estraneità dell’omicida a
qualunque contesto) e diventano oggetto di un gioco parodistico in cui la
corporeità ha un ruolo centrale. La mimica surreale è il punto di forza della
rappresentazione: a Cristina Recupito basta una buffa camminata e un cappello
per creare il personaggio di turno, che sia l’insopportabile tassista o il
mandante dall’immancabile accento siculo. Con l’affetto dello spettatore devoto
i due interpreti evidenziano precisi riferimenti a un certo immaginario: il
prologo stesso è leggibile come rimando all’inesorabilità del male che si trova
in tante pellicole degli anni quaranta come al Samuel Jackson di Pulp Fiction,
amante delle citazioni bibliche al momento di compiere i suoi “lavoretti”. Gli
stessi tempi morti della narrazione rientrano in questo amore per un modo non
convenzionale di raccontare. Il noir è anche misura del disagio e
dell’incongruenza, specchio di quel lato grottesco del vivere che si preferisce
relegare nei libri e nelle pellicole. (foto
di Meri Cannaviello)
Le suggestioni del cinema degli anni
Quaranta, il fascino di Shakespeare, le inquietudini dell’uomo contemporaneo.
Risulta versatile il programma de “La Fornace del Teatro”, la rassegna curata da Franco
Alfano sotto l’egida della Fondazione Salerno Contemporanea e del Comune di
Salerno, che si terrà dal 20 agosto al 2 settembre presso il Teatro Ghirelli.
Si inzia con “Noir”, dove Igor Canto e Cristina Recupito (col supporto di
Adriano Galdi e Goelga) creeranno un concerto-spettacolo per rivivere con
ironia le atmosfere di un racconto poliziesco, attenti come di consueto a un
preciso gioco di rimandi e allusioni. Il 21 agosto la Compagna dell’Eclissi
punterà su di un suo cavallo di battaglia, “Il piacere dell’onestà”, dove la
nudità della messinscena e le coordinate spaziali volutamente indefinite
restituiscono al testo pirandelliano tutta la sua forza. Alessandro Tedesco
dirigerà Marta Chiara Amabile, Daniela De Bartolomeis e Michela Ventre in “Il
tè delle tre” (22 agosto): l’incontro sulla tomba del proprio psichiatra spinge
tre donne instabili a rivelare aspetti a dir poco sconcertanti della propria
natura, fino a giungere a un finale del tutto inaspettato. “La ciorta di Zeza”
di e con Carlo Roselli, in programma il 24 agosto, prenderà le mosse dal Pentamerone
di Giovan Battista Basile per dar vita a uno spettacolo dove il racconto si fa
azione scenica e incontro senza filtri del pubblico con personaggi come
Vardiello, lo sciocco che attiva una serie di situazioni comiche, o l’avveduta
Grannona. Il 27 agosto Antonetta Capriglione e Antonino Masilotti, per la regia
di Marco Dell’Acqua, impersoneranno tutte le figure principali dell’“Amleto”
come altrettante declinazioni del dissidio senpre aperto tra verità e finzione.
La regista Simona Forte proporrà il 28 agosto un capolavoro di Harold Pinter,
“L’amante”, con Stefania Autori, Marco Di Gregorio e Danilo Napoli. Una coppia
alle prese con il nemico di ogni rapporto, l’abitudine, opta per un’infedeltà
sui generis, visto che gli amanti con cui rifioriscono sono i coniugi stessi.
Il 29 agosto sarà il Teatro Grimaldello a dominare il palcoscenico con una
performance che si rifà a Pina Bausch e Martha Graham, “Esercito d’amore”, in
cui trenta attori vestiti da sposi cercheranno di colmare la distanza che li separa
dal proprio oggetto del desiderio in una guerra che alberga negli animi prima
ancora che nei luoghi. La chiusura della manifestazione è affidata alla
compagnia Le Ombre, che con “Poteva andare peggio” offre un ritratto
dell’Italia di oggi e delle sue incongruenze attraverso le vicende di un
protagonista alle prese con la paternità e con i molti problemi del quotidiano.
“A magnà giacubine nun se fa peccat, c’emm
nfurmat”. In quel mondo di corpi straziati e sognati che è “Il baciamano” di
Manlio Santanelli, l’assurdo diventa la norma e a essere cannibalizzata è anche
l’anima. Nello spettacolo diretto con successo da Antonio Grimaldi al Castello
Fienga di Nocera Inferiore, nell’ambito della manifestazione Centrale
dell’Arte, Janara, una popolana che può solo sognare una vita diversa tra
miserie e violenze (Annarita Vitolo, che regala al pubblico un personaggio più
vero del vero), si accinge a uccidere e cucinare un giacobino (l’intenso
Vincenzo Albano). La recitazione, giocata quasi interamente su tinte forti,
diventa a ogni passo più coinvolgente, senza cadere nella trappola di un
parossismo artificioso. L’essenzialità della scenografia riflette il deserto
che il fallimento della rivoluzione del 1799 lascia a Napoli: una cornice
impressa su di un tendaggio (la donna non ha sbocchi o prospettive) un tavolo,
un baule dove riporre quasi con amore i resti di altre vittime (un crudo
realismo assolutamente necessario dato il carattere del testo, che rende di
fatto la morte una pratica usuale), una bacinella e un coltello. Janara riduce
la sua esistenza a rabbia e istinto. La maschera di maiale che indossa a un
certo punto della messinscena, così come la cupa fiaba di Ficuciell, sono
chiari riferimenti a quel bisogno di sopraffazione che diventa naturale come
respirare. Il prigioniero, che non rinuncia al suo linguaggio forbito, cerca di
suscitare in lei umanità ed ecco che si scoprono più vicini di quanto non
appaia. Sono entrambi vittime di un mondo che non si volta a guardare chi
calpesta e quando Janara confessa di aver sempre desiderato un gesto
delicatamente aristocratico, il baciamano, i due inscenano questo rito, quasi a
voler cancellare per un momento ogni barbarie. E come la popolana si percepisce
finalmente persona e non più semplice corpo, così il giacobino sta per cedere
alla stessa violenza che l’ha condotto alla fine. Sarà il pensiero dell’amato
compagno morto e il fortissimo senso di lealtà a impedirgli di diventare a sua
volta un omicida, per quanto il motivo più vero consista nel leggere in Janara
la sua stessa fragilità, la stessa sconfitta del proprio bisogno di felicità. I
protagonisti non sfuggiranno a ciò che li aspetta. Quella della lazzara è una
discesa nel buio, ma almeno questo buio non è privo della forza malata del
desiderio.